Le risposte possibili sono due: la prima è quella che diede Michal Kalecki, uno dei grandi economisti del XX secolo: i lavoratori consumano quello che guadagnano e i capitalisti guadagnano quel che consumano; la seconda è che, come testimonia Robert Skidelsky, Keynes riteneva sopportabile una dimensione del settore pubblico nell´ordine del 25% del Pil. Oggi le due condizioni si reggono reciprocamente perché hanno origine nella carenza di domanda, e quindi di sviluppo, da esse stesse generato; infatti, i privati non investono, cioè non consumano, e il settore pubblico pesa quasi il doppio del tollerabile. In Italia, a partire dagli anni Sessanta la dimensione del settore pubblico non è mai stata oggetto di seri interventi, ma è servita per giustificare l´aumento della pressione fiscale, ossia per perpetuare l´estensione della presenza dello Stato nella vita economica e sociale.
Firmando il fiscal compact abbiamo reiterato l´impegno preso a Maastricht di convergere verso il 60% del rapporto tra debito pubblico e Pil, e ciò contrarrà ulteriormente la crescita del reddito e dell´occupazione, fornendo argomenti ai privati per non investire e al pubblico per aumentare le tasse. Lo spettro della patrimoniale si aggira nel Paese. Il governo Monti, sulla scia di un´idea maturata in sede europea, intende affidare al rigore fiscale e al libero mercato il compito di garantire la tutela del benessere economico, anzi promette una ripresa. È un´eresia credere che ciò si possa ottenere partendo da una presenza pubblica che assorbe metà del prodotto nazionale lordo, proponendosi di lottare contro l´evasione per dare migliori servizi (lo dice la pubblicità di Palazzo Chigi) e toccando piccoli interessi, dai tassisti ai notai e ai farmacisti.
Per crescere vi è una e una sola via: cedere il patrimonio pubblico per rimborsare il debito pubblico e investire; ogni altra forma peggiora il benessere sociale. L´idea che il mercato, quello che abbiamo, non quello che è descritto nei libri di testo, si possa fare carico dei problemi italiani ed europei è una mistificazione della realtà che ci consegnerà a termine una società peggiore, forse ingovernabile come la Grecia. L´Italia ha di fronte due alternative: ottenere la modifica dell´architettura istituzionale dell´Unione, muovendo verso un sistema di cooperazione civile tra i Paesi membri, oppure accettare che la Germania prenda la guida del Vecchio continente, purché sia disposta ad assumersene la responsabilità politica.
Ciascuna soluzione incontra ostacoli insormontabili: la prima nella diversità di concezione sul funzionamento di un´economia moderna e su cosa chiede una società per restare coesa; la seconda, perché la Germania intende essere solo leader del processo di rinazionalizzazione delle politiche, proprio nel momento in cui occorrerebbe una più stretta cooperazione tra Stati. Le società di rating fotografano questa situazione e i gruppi dirigenti europei non sono stati ancora capaci di dare una risposta convincente. Anzi sostengono che non sia necessario cambiare perché ciò che è stato finora fatto va bene e basta. Lo scontro tra il mercato e le istituzioni europee, che il mondo guarda con preoccupazione, ha un esito incerto che potrebbe causare danni irreparabili a parecchi Paesi europei, Italia compresa.
Si dica quel che si vuole, si esalti pure l´ideale europeo, ma resta il fatto che siamo di fronte al fallimento di un intero disegno di unione politica. Possibile che non si formi un blocco di Paesi per spingere l´Europa verso una diversa impostazione del suo futuro?