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Intervento pubblico. Andata e ritorno

Nel 2004 Roberto Napoletano intervistò i protagonisti dell’imprenditoria nazionale sul futuro del capitalismo made in Italy (Padroni d’Italia, Sperling & Kupfler). Tra i giudizi meno lusinghieri e rituali sul ruolo giocato da Enrico Cuccia negli assetti economico-istituzionali italiani, Napoletano riporta quello di Vittorio Mincato. Al banchiere siciliano-milanese, che vedeva l’Italia fatta da “un Monte Bianco e tante piccole colline” (cioè da Fiat e Pmi), l’ad di Eni rispose citando il “Monte Rosa” e il “Gran Sasso”, cioè Iri ed Eni, cui il capo di Mediobanca si oppose realizzando quella che riteneva “una grande conquista”, cioè la loro uscita dal capitale di Montedison.
 
È una valutazione singolare, visto che in altre stagioni si è visto in Cuccia la testa di ponte nel Nord degli interessi dei gruppi pubblici romani; la teniamo ferma però, perché ci sembra consona ad un nuovo ciclo politico, apertosi proprio alla metà dello scorso decennio e che è destinato a rimettere in prospettiva storica l’intervento dello Stato in economia. Continuando la metafora di Cuccia e Mincato, si tratterebbe ora di vedere Monte Bianco, Monte Rosa e Gran Sasso non separatamente, in una ripetitiva contrapposizione tra capitalismo statale e capitalismo privato (e nell’altrettanto stucchevole damnatio memoriae a fasi alterne ora dell’uno, ora dell’altro), ma nella loro relazione d’insieme, valorizzando l’inestricabile rapporto che concretamente si è instaurato nel secolo scorso tra gruppi capital-statali e grandi imprese private nel triangolo tra Torino, Milano e Roma. Solo in questo modo è possibile cogliere in quella relazione effettiva e documentata, e non nell’astratta distinzione tra liberismo e statalismo, le forme mutevoli che il governo dello sviluppo capitalistico ha assunto nel nostro Paese.
 
In questa logica, è chiaro che non sarebbero esistite le alte cime senza le dorsali appenniniche; fuor di metafora, senza i centri del medio capitale padano-adriatico, il cui sviluppo è stato prima indotto dallo spostamento di lavorazioni nel “contado” da parte dei grandi impianti industriali urbani, per poi divenire “terzo capitalismo” sempre più autopropulso negli anni Settanta-Ottanta. Nella seconda metà del decennio scorso la resistenza all’ingresso del terzo capitalismo nel triangolo Torino-Milano-Roma si è ancora manifestata nelle lotte di potere per il controllo degli assetti del sistema bancario. Verona e Bologna alla fine sono entrate in gioco, sospinte da dinamiche oggettive e dall’accumulazione di rapporti di forza sedimentati da tempo, ma dopo un lento processo di elaborazione della governance da parte dei grandi poli privati. In assenza di strumenti di governo pubblico del credito in grado di guidare o accelerare questo metabolismo, l’interesse nazionale fondamentale all’inclusione dei nuovi centri è stato lasciato a singole forze politiche e al loro “collateralismo”, anche perché era allora in crisi la funzione di moral suasion di Bankitalia.
 
Da almeno un quarto di secolo dunque, il rebus politico che si ripropone è il superamento dell’economia mista imposto dall’ascesa del terzo capitalismo, superamento che può avvenire solo con una concentrazione di forze economiche, politiche ed intellettuali, e non con la loro frammentazione secondo un processo che favorisce l’anarchica affermazione dei singoli interessi. In una fase diversa, gli equilibri tra banche ed imprese e tra settori diversi dell’industria furono trovati nello sforzo coeso di ricostruzione postbellica, quando la Dc costruì la propria centralità negli assetti economici attraverso i governi con il Cln Alta Italia (1945) e con il Pci (1946-47).
 
L’accordo a garanzia di quegli equilibri prevedeva che il grande capitale privato fosse limitato (senza essere aggirato o sfidato frontalmente, come era stato nelle intenzioni di alcune correnti fasciste) attraverso la gestione pubblica delle grandi banche commerciali, la loro separazione dalle partecipazioni industriali (confermando l’indirizzo della riforma bancaria del 1936) e alcuni enti, tra cui in particolare l’Istituto mobiliare italiano (Imi), costituito nel 1931 con capitali di Ina, Inps e casse di risparmio; mentre la Comit di Raffaele Mattioli, partecipata dal Tesoro ma con un quarto di capitale in mano ai privati, fu al tempo stesso scuola di manager creditizi di alto livello e cuore propulsore di un’iniziativa come Mediobanca, complementare rispetto all’Imi lungo l’asse Torino-Milano. Gli uomini del riformismo postbellico, ispirati dalla tradizione nazionale nittiana e dal keynesismo anglosassone, non si limitarono a registrare i rapporti di forza e seppero guardare oltre ai centri tradizionali del potere economico.
 
Già nel luglio ‘43, in una fondamentale riunione a Camaldoli tra economisti e tecnici cattolici e laici, emerse la volontà di dare profondità strategica al compromesso, altrimenti asfittico, tra nascente sistema delle partecipazioni statali e grandi capitali privati indeboliti dalla guerra, allargandolo agli istituti dell’economia e del risparmio diffusi (casse di risparmio e rurali, banche popolari, cooperative). Fu quella una sorta di costituente dei poteri reali, che unì all’ispirazione industrialista-liberale un disegno economico popolare, attento agli strati economici emergenti e alla loro inclusione. In pratica, l’accordo economico-istituzionale tra capitalismo di Stato e capitalismo privato venne concepito dopo Camaldoli non come ripetizione dei rapporti prebellici, ma come sinergia espansiva e inclusiva di nuovi gruppi e nuove élites tecniche e imprenditoriali.
 
Nella costituzione del sistema Cassa depositi e prestiti (Cdp) si può scorgere il tentativo di ricostruire un’osmosi finanziaria pubblico-privata adeguata, in termini di concentrazione tecnico-economica, alle sfide competitive globali che attendono un terzo capitalismo sempre più stratificato, dal cui seno è necessario escano nel prossimo decennio 50-100 nuovi gruppi eccellenti. Un governo coesivo dei rapporti tra banche e imprese, imperniato su Tesoro e fondazioni, è perciò atteso a una triplice sfida simile a quella vinta dall’economia mista del dopoguerra: catalizzare la metamorfosi del sistema-Paese, valorizzarne i punti di forza e rinnovarne l’establishment.
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