Poco prima dell’inizio della guerra delle Falkland, l´ammiraglio Henry Leach rispose polemicamente ai tagli previsti dalla Thatcher alla Royal Navy, affermando che solo “una forte capacità marittima offre flessibilità di fronte agli imprevisti”. Allora la Gran Bretagna seppe comunque svolgere un’operazione anfibia a migliaia di chilometri di distanza e senza supporto Nato.
Nel marzo 2011 il copione si è ripetuto, con l’imprevisto libico piombato su una Londra alle prese con pesanti tagli alla difesa; questa volta, però, la Royal Navy era senza portaerei, e lo sarà fino al 2020. Se consideriamo che, come sottolinea Berenice Baker di Strategic defence intelligence, la Libia è un caso abbastanza eccezionale, essendo un Paese del Vicinato Ue alla portata delle basi italiane, mentre i prossimi scenari di supporto aereo ravvicinato richiederanno capacità di intervento più a lungo raggio, ecco che la debolezza di un nucleo di proiezione oceanica diventa questione politica europea che si intreccia da una parte con l’incertezza circa i programmi navali francesi e dall’altra, in prospettiva, con l’oscillazione della Turchia, la cui disponibilità ad agire come punta avanzata di schieramenti occidentali fuori area non può essere certo data per scontata.
L’accordo aeronavale anglo-francese del 2010 è una risposta agli interrogativi strategici posti alla politica di sicurezza e difesa comune dalla crisi finanziaria e del debito sovrano di Londra e Parigi. In questo senso, è una sorta di assicurazione di breve periodo, ma può aspirare a qualcosa di più: forse a costituire, con le basi sparse tra Aden, Golfo Persico e Oceano Indiano, l’architrave di una proiezione Ue nella sfera di influenza esterna da Suez a Shangai, quella che gli analisti dell’Eiss definiscono “grand area”. L’incognita è il contenuto strategico della relazione anglo-francese: se regredisse ad un bilanciamento della Germania, potrebbe provocare una contro-accelerazione tedesca, a protezione dei propri interessi, in sinergia con gli Stati Uniti.
La spesa militare è un buon filtro in cui leggere queste possibili evoluzioni. Il fatto che Londra sia la settima potenza economica, ma abbia il 3° bilancio militare mondiale, non è indifferente; come non lo è la sovraesposizione militare francese (Afghanistan, Libia, Costa d’Avorio), che secondo i militari dell’Esagono merita una correzione. Il quadro è più completo se consideriamo che Berlino (quarta potenza economica e 8° budget militare del mondo), è comunque stata in grado, nel clima di austerità e riduzioni di forze, di pianificare un aumento delle truppe a rapida dislocazione, portandole a 10mila unità.
Il budget della difesa Usa, anche se ridotto rispetto al 2011, è centrale anche per capire questo mosaico in evoluzione in Europa. Le cifre su cui si è animato il dibattito riguardano, più che aspetti contabili ed interni, la qualità dei concetti operativi che il complesso del Pentagono propone in un mondo multipolare. Il concetto operativo chiave contenuto nella proposta americana degli ultimi anni è quello della difesa contro i missili balistici (Ballistic missile defence, Bmd), un programma che si è fatto strada nei vertici Nato nella seconda metà dello scorso decennio. Con il Phased adaptive approach annunciato nel 2009 dal presidente Obama, l’entrata in funzione dello scudo antimissile è previsto svolgersi a fasi da qui al 2020. Sul versante asiatico, a fianco degli Stati Uniti, il Giappone si è posto al centro di questa architettura difensiva, con massicci investimenti e un forte impegno militare. La realtà strategica nipponica si è dunque imposta come pivot nel teatro del Pacifico-occidentale, sia in forza della solida base tecnologico-industriale, sia per lo storico legame con gli Stati Uniti, reso più vitale dalla necessità di sorvegliare da vicino la Cina.
Ora la sfida, secondo l’ultimo Ballistic missile defence report del Pentagono, è passare dall’approccio bottom-up della rincorsa tecnologica tra gruppi industriali a quella top-down dell’integrazione delle piattaforme all’interno dei vari scenari regionali. Se questa è ancora la linea prevalente negli Usa, allora il tema si riproporrà inevitabilmente anche sul versante europeo. Dove, è facile prevedere, non basteranno a fare da perno al sistema Bmd una Polonia pur in forte riarmo, la piccola Repubblica Ceca o un partner Nato recentissimo come la Romania.
La Germania è il Paese che tra le potenze europee più si avvicina al profilo strategico giapponese: grande potenza regionale con storici legami bilaterali con gli Stati Uniti, ospita basi americane e comandi Nato fondamentali (Eucom ed Africom), dispone di una solida base tecnologico-industriale e ha una tradizionale capacità di ingaggio-contenimento dell’altro gigante continentale, la Russia. Queste caratteristiche sembrano, per così dire, permanenti, perché, a parte qualche oscillazione tattica, veicolano interessi nazionali fondamentali. Il sistema di difesa Bmd in Europa potrebbe catalizzare questi interessi in una forma militare, e trascinare il resto del Vecchio continente, come adombrato in uno studio congiunto tedesco-americano Rand Europe-Swp del 2001.
Può ciò preludere nel medio termine ad un G2 militare Washington-Berlino? Difficile dirlo, ma la prudenza suggerisce di non escludere l’ipotesi. La piattaforma non implica capacità strategico-nucleari, di cui la Germania è priva, ma convenzionali e di teatro. Inoltre, Berlino è più direttamente interessata di Francia e Gran Bretagna, perché la reazione russa sul Baltico incide sulla sua sfera di influenza diretta. Infine, comandi e basi tedesche hanno una posizione di preminenza nella difesa antimissile attiva a più strati della Nato. I think tank di Bruxelles cercano ora di ricucire il triangolo difensivo con la Germania dopo l’accelerazione anglo-francese. Resta da vedere se quest’ultima sia stata più uno scatto da centometrista che l’avvio di una lunga staffetta europea. Il maratoneta tedesco potrebbe avere altri traguardi.