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Riflessioni sui parodossi dell’Europa in crisi

Ogni giorno si attende il “giudizio dei mercati” sull’azione di governo. Ma i mercati non giudicano: speculano. Con le operazioni di acquisto e vendita non valutano se i governi abbiano operato per il bene comune, ma scommettono su potenziali occasioni di guadagno (a breve termine) che possono, del tutto, prescindere dalla validità delle misure adottate.
 
Il dibattito politico è tutto incentrato sulla crescita economica. Ma il paradosso della felicità ci insegna che quest’ultima non aumenta con il reddito, ma anzi ad un certo livello diminuisce. In altri termini, la ricchezza non, necessariamente, porta con sé il ben-essere.
 
Le liberalizzazioni sono considerate la panacea di tutti i mali. Si dimentica, però, che regole e limitazioni alla libertà possono essere giustificate da un ordine superiore di fini. Se si abolisse la patente, tutti potrebbero guidare e, quindi, molto probabilmente si determinerebbero effetti positivi sulla vendita di automobili, sui consumi di carburante e… sui servizi sanitari e di pompe funebri (che contribuiscono, anch’essi, al calcolo del Pil). Le liberalizzazioni sono uno strumento opportuno e, in moltissimi casi, necessario in un sistema ingessato come quello italiano, ma la loro utilità non può essere considerata solo su base economica.
 
Si invocano le privatizzazioni per far cassa e perché la gestione pubblica è inefficiente. Ma parlare di “privato”, nella società di mercato, vuol dire parlare di “profitto”. Bisogna, allora, intendersi. Le annunciate privatizzazioni mirano ad una efficientizzazione delle attività secondo i principi dell’economica civile, ovvero alla loro mercatizzazione? Negli ospedali pubblici, l’assistenza sanitaria è il fine (che dovrebbe essere perseguito secondo regole di economicità); nelle cliniche private, l’assistenza sanitaria è lo strumento attraverso il quale si perseguono (leciti) fini lucrativi.
 
Il cittadino-consumatore viene posto al centro delle politiche socio-economiche. Ma così facendo si sviliscono e riducono le conquiste della modernità. Il cittadino è fine della politica non in quanto componente del processo produttivo (con la funzione di consumare beni e servizi e, così, alimentare nuova domanda), ma perché fonte ultima di legittimazione della politica stessa. Il cittadino, nelle democrazie, è sovrano e, come tale, ha una dignità che prescinde dalla sua capacità di creare reddito e/o sostenere la domanda di consumi.
 
In tempi di crisi si chiedono sacrifici, imponendo contributi e prelievi di solidarietà. Ma la società di mercato conosce e riconosce solo individui, assume la concorrenza a principio regolatore dei rapporti sociali ed economici, premia i vizi privati come l’avidità o l’ambizione in quanto, secondo la favola delle api, si risolvono magicamente in pubbliche virtù. L’aporia è evidente. In una società di individui (homo homini lupus) l’imposizione di una tassa di solidarietà non può che essere percepita come una vessazione, l’ennesima vessazione, e non come un dovere civico, che presuppone il riconoscersi in una comunità nella quale gli interessi dei singoli sono subordinati al bene comune (homo homini sacer).
Tempo fa la bandiera dell´Unione europea è stata bruciata. È la prima volta ed è accaduto a Budapest: il 14 gennaio 2012. Il falò è stato appiccato da attivisti della destra estrema. Ma il gesto, per la sua carica altamente simbolica, non può essere sottovalutato, soprattutto se si considera che la crisi economica e istituzionale dell’Europa continua ad essere affrontata secondo i paradigmi dell’ideologia della sovranità del mercato che ne hanno regolato il funzionamento negli ultimi vent’anni.


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