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La fatica della crescita

Una volta si chiamava politica dei due tempi, che suscitava tante reazioni politiche e discussioni accademiche. Quasi contemporaneamente l´Ocse di Parigi ha diffuso un documento intitolato «Going for growth» nel quale i concetti dei 12 capi di governo europei sono sostanzialmente ripresi e integrati in una visione di più ampio respiro; non si possono infatti ignorare né l´invito rivolto a tutti i Paesi di dedicare più impegno alla scuola e formazione, né la raccomandazione all´Italia di privatizzare beni pubblici, argomenti non trattati nel fiscal compact e nella lettera.
 
La sostanza delle due posizioni favorevoli alla crescita è che le politiche congiunturali, quelle che riguardano la domanda aggregata, vanno sostituite con riforme, che sono politiche dell´offerta, sulla base di un giudizio che oscilla dalla constatazione che le manovre sulla domanda non sono possibili, dati i vincoli oggettivi che gravano sulla spesa e sui debiti pubblici, o non sono efficaci, secondo una concezione prekeynesiana dei modi di funzionamento dell´economia. Non esiste un´evidenza tale da attribuire probabilità di successo a queste politiche, le cui scelte sono continuamente necessarie per procedere sulla strada dello sviluppo, perché senza un mercato ben funzionante le politiche congiunturali tendono ad arenarsi in mera inflazione.
 
Ciò che non convince è la proposta di operare quasi esclusivamente sul mercato del lavoro e sul welfare, un´impostazione che il presidente della Bce Mario Draghi ha ribadito sostenendo che gli istituti a cui ha dato vita la società civile non possono più essere quelli del passato. Affermazione anch´essa corretta se accompagnata da una proposta di rientro in modo non deflazionistico dagli eccessi del passato per correggere l´errore della mancata regolazione dell´ingresso nel mercato globale di miliardi di persone che non hanno queste istituzioni civili e commerciano in social dumping, ossia incorporano i sacrifici dei lavoratori e costringono il miliardo di persone a rinunciare al livello di civiltà che avevano raggiunto.
 
Ciò che disturba non è solo l´invito a operare sul lavoro e sul welfare, ma anche e soprattutto ignorare l´origine dello stato di necessità sul quale le autorità insistono, generato dalla mancata riforma delle regole di partecipazione agli scambi in ambito del Wto. Questo stato di cose avrebbe richiesto almeno la sostituzione del dollaro come moneta di riferimento degli scambi con i diritti speciali di prelievo del Fmi, l´imposizione dello stesso regime di cambio per i Paesi partecipanti e parità di condizioni per le gestioni bancarie e finanziarie (tradizionali o innovative, come i derivati e lo shadow banking).
 
È dovere dei Paesi partecipanti al G20 aprire un negoziato internazionale che assicuri queste riforme e garantisca un equilibrio tra lavoro e capitale come fondamento della convivenza civile interna ed esterna agli Stati. Viene il sospetto che, approfittando della crisi, si riporti indietro l´orologio della storia, la qual cosa non conviene al capitale per almeno due motivi: perché i suoi profitti dipendono dai consumi dei lavoratori, che si intende comprimere, e perché i profitti ottenuti con minori costi lel lavoro attenuano la spinta all´innovazione tecnologica. Senza disconoscere la validità delle proposte avanzate nei due documenti, attendiamo più serie analisi e proposte di come affrontare i temi di fondo dello sviluppo globale garantendo quella maggiore equità ed efficacia che tuttora manca.


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