Negli scorsi giorni un appello di Roberto Saviano richiamava il parlamento a una rapida approvazione della “legge anticorruzione”, il cui iter parlamentare, cominciato più di un anno fa, si è nuovamente interrotto alla Camera. L’appello, sfortunatamente, è caduto nel vuoto, ma offre l’occasione per introdurre il tema della corruzione.
Si può, per legge, abolire la corruzione? La domanda è retorica, ma neanche troppo. Perché troppe volte abbiamo invocato leggi e atti eccezionali di fronte a situazioni improvvisamente percepite come gravi, salvo poi, con l’anima in pace, tornare ognuno al proprio orticello. Basti pensare a come ci siamo raccontati l’ingresso nell’Euro (“Salverà i conti!”), la Legge Biagi (“Darà lavoro ai giovani!”), il Referendum sul maggioritario (“Darà stabilità e ridimensionerà i partiti!”). Eppure – stupite! – tutti e tre i temi sono ancora d’attualità.
Lo Stato corrotto, ci dice Tacito, è proprio quello che fa leggi a non finire: Manzoni concorda con lui. La normativa, del resto, anche quando pretende di ergersi universalmente, non può che rincorrere la realtà; e la storia del diritto è spesso il riflesso, con qualche attimo di ritardo, di quella del crimine. Fuor di retorica, è davvero possibile ridurre la corruzione a un tema di diritto penale? La risposta, come troppo spesso accade, è in un’altra domanda: vogliamo i corrotti in carcere, o uno Stato a prova di corruzione?
Nel suo appello, Saviano chiede di allungare i tempi di prescrizione per i reati di corruzione, oggi fissati a sette anni e mezzo. Riformulo la domanda: vogliamo che un politico corrotto sia condannato al termine di un processo durato dieci anni, durante il quale è rimasto nel pieno delle sue funzioni, o evitare piuttosto che un corrotto entri in parlamento? Nel secondo caso, le leggi, perlomeno quelle penali, possono poco: diventano cruciali le pratiche quotidiane, la trasparenza, la “costituzione materiale”. Possiamo anche ottenere la pena di morte per il pubblico ufficiale che favorisca un’azienda in un’asta pubblica, ma finché gli scheletri di edifici regolarmente appaltati e mai portati a termine sfregeranno le nostre città, sarà difficile apprezzarne i benefici.
La definizione stessa di corruzione è sfuggente, tanto da richiedere alle istituzioni che la combattono di impegnare menti e denari nel tentare di dargliene una onnicomprensiva. Quello che un ex magistrato barese definisce, con perizia biologica, “un po’ di pesce” è giuridicamente tacciabile, a seconda della latitudine, di corruzione come di bonaria consuetudine. Del resto, anche qua dove il sì suona, non turba trovarlo sulla scrivania di un primario, se a recapitarglielo è un caro paziente.
Una legge che integri e aggiorni la normativa è necessaria, ma guai a caricarla di attese esagerate e addirittura controproducenti, se carezzando la pancia all’opinione pubblica, ne abbassano il livello di attenzione rispetto alle zone grigie che consentono al malaffare di perdurare. Là dove il magistrato non può arrivare, fino al giorno in cui la terra trema, piove più del previsto, qualcuno si fa male. A meno di abolire la morte, dobbiamo fermarli prima.
Giacomo Gabbuti
Studente del Master of Science in Economics all´Università di Roma Tor Vergata, dopo la triennale in Economia Europea nella stessa università ed un Erasmus ad Istanbul. Ha collaborato con il progetto “Cultura dell´Integrità nella Pubblica Amministrazione” della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione.