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Dalì, l’artista che creò se stesso

Apre nel prestigioso spazio del Vittoriano e vi rimane fino al 30 giugno, la mostra Salvador Dalí – L’uomo e l’artista, un’occasione per un’introduzione all’opera di quello che è forse il più famoso surrealista e uno degli artisti più iconici del XX secolo insieme a Picasso e Warhol. Per le strade di Roma già occhieggiano i manifesti della mostra con il ritratto dell’artista con gli inconfondibili baffi all’insù. Può sembrare singolare che l’opera di uno dei più raffinati figurativi del Novecento sia pubblicizzata da una foto e non dall’immagine di un quadro, ma la contraddizione è solo apparente. La mitologia dell’artista novecentesco subisce una rilettura dovuta all’entrata dell’arte nel grande mercato delle immagini e dei media.
 
Il genio romantico già di per sé unico, individualità inimitabile, diventa pop. In modo non diverso dai divi del cinema o dai grandi del rock, alcuni artisti, sulla scia delle pratiche dell’avanguardia, rendono la loro stessa vita un’opera, la loro immagine un logo, perciò uno stile di vita esemplare nella propria eccentricità. Le bizzarrie di Dalí sono al contempo grottesche e sublimi, perché i due termini vanno mescolandosi e identificandosi proprio mentre nasce la cosiddetta società dello spettacolo. Adesso ci appare ovvio che un uomo che si butta da un palazzo e un violinista che esegue Paganini possono attirare un’attenzione comparabile presso il pubblico, ma quando Dalí cominciò il suo percorso di avvicinamento ai media, negli anni ‘20, non era una nozione così scontata.
 
La biografia e l’immagine di un artista possono dunque diventare parte insostituibile dell’opera e una foto dei baffi dell’artista è altrettanto riassuntiva della sua arte quanto un orologio sciolto o un manichino. Dalí diversamente dallo stilema dell’artista romantico non volle solo staccarsi dal pubblico rendendo la sua vita dandistica e inimitabile, ma superando anche il modello di Baudelaire, volle diventare una vera e propria firma del gusto, proprio in quanto bizzarro e al di là delle convenzioni. La dannazione e il rifiuto che portava con sé l’artista decadente si riconvertivano in vera e propria celebrazione e, con l’aiuto della macchina mediatica, in successo. Lo scandalo non era più stigmatizzato e represso, ma incoraggiato e reso iperbolico. Sono elementi di cui negli anni Sessanta si è nutrita avidamente non solo la cultura pop, ma anche il marketing e la pubblicità.
 
Da un lato abbiamo un artista come Warhol che trasforma le intuizioni precorritrici di Dalí in un sistema estetico e interpretativo della cultura mediatica, ponendosi a sua volta come icona definitiva della cultura di massa. Dall’altro abbiamo le rock star (alcune come Lou Reed o Nico, create dallo stesso Warhol) che traducono a livello generazionale questa ricerca dello stile come definitivo processo di individualizzazione contro la relativa omogeneità della cultura borghese. Dalí tuttavia offre un’ulteriore chiave di lettura dal momento che il suo dandismo vuole perdere anche la volontà rivoluzionaria. L’artista spagnolo non rinunciava ad essere un eversore, ma poneva l’artisticità di questo processo come elemento stesso della vita sociale.
 
Indice delle cose notevoli:
* Uno dei tanti provocatori interventi sull’arte del maestro: Salvador Dalí, I cornuti della vecchia arte moderna, Milano, Abscondita, 2008
* Nel mondo del pop, l’incontro fra un genio dell’arte e il padre di Topolino: Francesca Adamo-Caterina Pennestrì, Il destino di un incontro. Salvador Dalí e Walt Disney, Milano, Mimesis, 2010

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