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I media si possono salvare (se vogliono)

Numerosi piccoli quotidiani e periodici stanno chiudendo i battenti. Testate un tempo prestigiose (e con utili consistenti per gli editori) sono “in stato di crisi”, hanno ridotto il personale ed operano sulla base di “contratti di solidarietà”. Ogni mese i dati sulle vendite raggelano. Ancora meno incoraggianti quelli sulle pubblicità.
 
Il problema non è solo italiano: lo studio “The state of the nation’s news media” del Pew research center afferma che per ogni dieci dollari di pubblicità persi dalla carta stampata (quotidiani, periodici), l’informazione su web guadagna un dollaro. Con una perdita netta al settore di nove dollari. In questo contesto, il Pew research center stima che al fine di contenere costi di carta e di diffusione, nel 2012, cento quotidiani Usa offriranno abbonamenti in pdf on-line. Già oggi il New York Times ha 400mila abbonati alla sua versione pdf.
 
Secondo lo studio, nell’arco di cinque anni, i maggiori quotidiani americani offriranno abbonamenti al cartaceo con consegna a casa (la prassi negli Usa) unicamente la domenica. Una notizia interessante per il web: guadagnano più pubblicità degli altri, quelli di approfondimento che hanno una conta accorata di “utenti unici” e una vetrina periodica su carta (in Italia questo è l’approccio di www.formiche.net). Negli Usa, l’informazione web con “utenti unici” ha segnato un aumento del 17% tra il 2010 e il 2011. Un’altra analisi di rilievo è il saggio di Matthew Gentkow, Jesse Shapiro e Michael Sinkinson a pp. 2980-3018 dell’ultimo fascicolo dell’American Economic Review. Sulla base di un’analisi econometrica dettagliata tra il 1869-2004 concludono che gli effetti della stampa sul gioco democratico della politica sono minimi: incide, a livello locale, sulla partecipazione al voto, ma non sul per chi si vota. Addirittura nulli quelli della stampa “partisan”, ossia di partito.
 
A fianco di queste notizie “nere” ce ne sono di positive: il buono stato della stampa locale negli Usa, in Francia, Germania e anche Italia (si tagliano i costi di distribuzione, le redazioni sono snelle e si stimola la pubblicità di imprese in loco), la crescita della stampa scritta nei Brics. L’editore tedesco Bertelsmann – guidato dal quarantacinquenne Thomas Rabe, lussemburghese di nascita ma che parla ugualmente bene il tedesco, l’inglese, il francese, l’olandese e lo spagnolo – sta cambiando pelle: da azienda strettamente controllata dalla famiglia Mohn sta diventando una multinazionale e prevede di aumentare il proprio capitale sociale anche tramite offerte pubbliche di acquisto di quote azionarie. L’aumento di capitale non ha l’obiettivo di tappare falle di bilancio: nel 2011 l’azienda ha riportato 1,75 miliardi di euro di utili operativi, con appena una leggera diminuzione rispetto all’1,83 miliardi registrati nel 2010, ma ha quello di varare un vasto programma di espansione – tutto nell’editoria – verso i nuovi mercati, specialmente quelli dell’Asia e del Brasile. L’operazione si colloca in un contesto in cui alcuni dei maggiori editori tedeschi di quotidiani – come Axel Springer – macinano utili (nonostante la crisi economica e gli alti costi della carta).
 
Lezioni per l’Italia. Ovvio notare come l’editoria tedesca non solo non è polverizzata come quella italiana, ma si compone di molti quotidiani popolari e pochi quotidiani di qualità, tutti con forti basi locali. Più interessante sottolineare il processo di internazionalizzazione verso mercati dove c’è una forte domanda di informazione anche tramite stampa tradizionale cartacea. Ciò richiede giornalisti addestrati all’uopo e in grado di lavorare in più lingue. In Italia, molti giornalisti si oppongono a che la laurea sia un requisito per entrare nella professione e sono rare le scuole di giornalismo dove si imparano bene le lingue. La professione pare aspirare al tramonto.
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