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Il romanzo e la strage. Un’occasione mancata

Spesso per alcune ipotesi di cinema militante o di impegno civile, si sprecano aggettivi come “necessario” o “doveroso”. Insomma quell’atto sociale, ma anche gratuito, che è l’operare artistico assume una dimensione morale di obbligatorietà assoluta. Non fa eccezione il dibattito riguardo a Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana, dedicato all’attentato di Piazza Fontana. Ovviamente appaiono i personaggi chiave della storia di quegli anni, dalle figure istituzionali come Moro, Rumor e Saragat a Pinelli e al commissario Calabresi, nel film vittime di un meccanismo di ragion politica che li porta inesorabilmente alla morte.
 
I difetti del film sono connessi con il logoramento della formula “impegno civile”. Nelle intenzioni degli artisti, che crearono il genere, da Rosi a Petri, esso nasceva come prosecuzione del Neorealismo a favore dell’inchiesta, ibridandosi con un allegorismo spesso grottesco e vicino alla tradizione letteraria italiana. Uno strano ma riuscito connubio fra il rigore di Rossellini e la caricatura di Goya. Ma la dimensione contenutistica e militante negli anni ha sopraffatto la libertà espressiva. Così ogni recensione diventa una sorta di contro-inchiesta rispetto alle tesi del film e l’ideologia umanitaria alla base della regia prevale su qualsiasi autonomia della narrazione.
 
In Romanzo di una strage viene a mancare l’elemento romanzesco, che Giordana sottolinea proprio nel titolo. I tre protagonisti, Pinelli, Calabresi e Moro, sono costruiti senza alcuna autonomia rispetto all’impianto ideologico della pellicola. I pochi momenti di libertà interpretativa concessi ai pur bravi Mastandrea e Favino sono legati all’intimità privata e familiare. Per il resto i tre sono utilizzati come dei santini, anzi meglio: come icone da esibire all’adorazione dei fedeli.
 
Nel contesto del film si rendono visibili le ambiguità di quegli anni: lo strano intrecciarsi di relazioni fra politica e Servizi, fra anarchici e fascisti, fra poliziotti e bombaroli. Ma i protagonisti sono sempre inevitabilmente dalla parte giusta, guidati da un senso di giustizia così assoluto da risultare anti-drammatico. È come se le discendenze ideologiche, marxista, anarchica e cattolica che comunque innervano il film, si banalizzassero nella scrittura di personaggi che non sono portatori di una loro umanità, ma di un sistema di valori che li sopravanza e li trascende, senza alcuna giustificazione. Pinelli, Calabresi e Moro sono buoni perché lo ha deciso lo spirito assoluto hegeliano, la dialettica marxiana incarnata, o più semplicemente la grazia di Dio. Ciò che conta è la loro valenza allegorica e non quella esistenziale.
 
La tridimensionalità delle figure è piallata. Non ci si commuove per tre vittime, ma per la Giustizia, con spreco di maiuscole. A tre personaggi così buoni non si possono contrapporre che cattivi grotteschi e ottusi, come il questore Allegra o cretini violenti come Freda, Ventura e persino Valpreda. Un film definitivo su quegli anni dovrebbe artisticamente, e quindi ambiguamente, dare conto della zona grigia, quella che Primo Levi, testimone della Shoah, identificava come elemento decisivo per affrontare l’orrore della Storia.
 
Indice delle cose notevoli:
* Il libro da cui è stato tratto il film: Paolo Cucchiarelli, Il segreto di Piazza Fontana, Firenze, Ponte alle Grazie, 2012
* La versione del figlio del commissario, ora direttore della Stampa: Mario Calabresi, Spingendo la notte più in là. Storie della mia famiglia e di altre vittime del terrorismo, Milano, Mondadori, 2007
* Il punto di vista di Adriano Sofri, uno dei protagonisti del caso Calabresi: Adriano Sofri, La notte che Pinelli, Palermo, Sellerio, 2009

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