Trattando d’integrità e corruzione è inevitabile confrontarsi con il richiamo dell’attualità e della precisa indicazione delle responsabilità. Alle volte, è necessario anzi un approccio direttamente politico, quando si presentino nodi non scindibili da una presa di posizione né trattabili con piglio accademico-scientifico. In questo articolo si prova ad affrontare due di questi nodi.
Il primo, quello di Italia Pulita. Per i più è superfluo rimarcare ciò che è considerato lapalissiano dai principali opinionisti, ma la storia recente di questo Paese insegna che, come si dice nella Capitale, il signor Tranquillo ha fatto una fine ingloriosa; soprattutto quando la sua ostentata tranquillità derivava da snobismo intellettuale e dalla pretesa di avere la verità in tasca.
Alla luce dei recenti fatti di cronaca politica dunque, è bene ribadirlo una volta per tutte. E’ vero, De André ci ha insegnato che dai diamanti non nasce niente. Ma da un partito che, per approvare un decreto parzialmente correttivo di vuoti legislativi evidenziati dagli organismi internazionali su un fenomeno di tale entità , non resiste a inserire argomenti di scambio, non sembra poter nascere un’Italia Pulita.
Non ci interessa il merito degli emendamenti sulla responsabilità civile dei giudici, per altro d’interesse generale; non si allude né del passato né a sentenze non definitive, ma ad un teatrino che rischia di annacquare un decreto già lacunoso e di costringere ad una fiducia incomprensibile ai cittadini.
Il secondo nodo è legato dalle recenti affermazioni di alcuni esponenti della sinistra Pd riguardo l’eventualità-necessità di andare al voto nell’immediato. Colpisce la definizione che ne fa “La Voce” nel punto della settimana: “I partiti sembrano considerare l’emergenza finita e, invece di rivedere le regole del voto, invocano elezioni anticipate.”
Di fronte alla discussione in corso alla Camera, sarebbe forse l’ora che tutti quegli economisti e opinionisti che hanno invocato il prevalere della ragion economica sulla rappresentanza politica, facessero, se non un mea culpa, un temporaneo voto di castità oratoria.
Di fronte ad una cancrena che contribuisce in misura sostanziale a esacerbare tutti i problemi che il Governo tenta coraggiosamente di affrontare dalla crescita all’equità, passando dalla competitività del privato, la sopravvivenza e l’accesso al credito delle piccole imprese ostaggio delle organizzazioni criminali come dell’inefficienza della burocrazia, la spesa per appalti ed acquisto di beni e servizi – se non c’è modo di trovare una maggioranza in Parlamento su provvedimenti minimi, saranno davvero mesi persi. Non si può del resto pensare di affrontare questi temi lasciando fuori la corruzione, tantomeno farlo per non turbare sensibilità “politiche”.
Tralasciando le conseguenze che tali prese di posizione hanno sul panorama dei partiti, un economista non dovrebbe discostarsi dal dato: un Parlamento troppo spesso ostaggio di logiche non compatibili con gli interessi nazionali, avvolto dalla sfiducia e dalla disaffezione che le recenti elezioni hanno evidenziato.
Già Caffè aveva imparato a convivere con quella figura di economista che ha sempre ragione: quelli cui, come al capostazione di Flaiano, “l’abitudine aveva insegnato che bisogna rifiutare la verità non prevista”. Ma aldilà delle opinioni e dei desideri, la realtà ci consegna un’immagine fosca, che possiamo solo sperare sia smentita dal proseguo dei lavori d’aula e della legislatura.