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Market & love

Libero amore e libero mercato. Sono i due slogan, o meglio le due parole d’ordine che hanno segnato le più radicali trasformazioni sociali degli ultimi cinquanta anni. Libero amore: attraverso la sessualità sono state abbattute convenzioni, si è portata avanti l’emancipazione della donna e, con essa, le rivendicazioni dei diritti civili delle minoranze. Libero mercato: attraverso l’economia sono stati sradicati vincoli comunitari, è stato ridotto il welfare state ed è stato dato un determinante impulso ai trasferimenti di sovranità a favore della Unione europea.
 
Dal libero amore al libero mercato: la parabola descrive la società italiana, che non scende più in piazza per gestire il proprio utero perché, anche durante le festività, passeggia o lavora nei megastore. Non occorre necessariamente riconoscersi nelle idee di Jean-Claude Michéa per convenire sul nesso tra libertarismo dei costumi e l’economia liberistica, che costituisce una sorta di compimento degli assiomi ideologici del primo. Ho qualche dubbio, però, che a trionfare sia stata la libertà (almeno nella accezione, politico-culturale, di chi si riconosce nelle premesse ideologiche dell’individualismo metodologico, che non tollera limiti verticali all’interesse egoistico). Di recente, il presidente Barack Obama, riconsiderando le proprie posizioni, si è dichiarato favorevole al matrimonio degli omosessuali. Quella che lui stesso ha definito una “evoluzione” ha meritato le prime pagine dei giornali di tutto il mondo, destando grande emozione e una impennata dei finanziamenti della campagna per la rielezione. Eppure, l’istituzionalizzazione del matrimonio degli omosessuali segna la sconfitta del libertarismo. Non è stato abbattuto l’ordine.
 
Come spesso accade nella storia, una regola ha sostituito (o, più precisamente, sostituirà) un’altra ma, sempre, secondo la medesima logica funzionale di quello specifico sociale che è l’ordinamento. Il regno dell’anomia è ancora di là da venire. Una maggiore onestà intellettuale porterebbe a riconoscere che, sotto la bandiera della libertà, una visione della vita, una politica ha prevalso (peraltro, del tutto legittimamente e democraticamente) su un’altra. L’istituto del matrimonio non è stato soppresso, ma potenziato (e, secondo alcuni, snaturato) in quanto esteso alle coppie omosessuali. Alla libertà si richiamano simboli e denominazioni sia delle forze di sinistra sia di quelle di destra (per non dire del partito più longevo della Repubblica, la Democrazia cristiana, di ispirazione cattolica, il cui simbolo era uno scudo crociato con la parola: libertas). Non c’è, quindi, da sorprendersi che del concetto si faccia un uso demagogico. Temo che ciò accada anche con riferimento al libero mercato.
 
È vero che con l’abrogazione dell’una o dell’altra misura cessano restrizioni e vincoli alla concorrenzialità del mercato, ma non è vero che ciò determini la liberalizzazione del mercato e il trionfo del libero mercato. Sino a quando ci saranno regole che difendono i diritti dei lavoratori, che riservano l’attività bancaria a operatori qualificati, che determinano i requisiti dei prodotti, il mercato non sarà mai (e per fortuna) libero. Il libero mercato non esiste né in natura (Marcel Mauss ha dimostrato che il dono, e non il baratto, regolava la quotidianità delle prime popolazioni) né nella storia. Il traffico economico incide anche su altri beni della convivenza civile e la loro tutela o realizzazione richiede misure di protezione che concorrono a regolare lo spazio proprio del mercato.
 
Anche le liberalizzazioni pertanto, ben lungi dall’instaurare il regno del possibile, si risolvono nella sostituzione di una regola con un’altra, ossia nell’affermazione di una visione politica. Nel nostro sistema, il lavoro dei minori è consentito solo in rigorosi limiti. In via eccezionale è permesso quello dei quattordicenni, con maggiore flessibilità quello dei sedicenni. La riforma del mercato del lavoro mantiene (grazie a Dio) questi limiti. Ne consegue che, del tutto impropriamente, si parla di liberalizzazione, soprattutto se si considera che, ancora ai primi del secolo scorso, i minori lavoravano e che i successivi divieti costituiscono una conquista di civiltà.


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