Né il tradizionale modello socialdemocratico, troppo sbilanciato sulla centralità dello Stato nazionale, né la mobilitazione individualistica di mercato, propugnata dalla rivoluzione neoliberista, eccessivamente spostata verso una concezione atomizzata della libertà, appaiono adeguati per affrontare le sfide che interpellano i Paesi avanzati.
L’uscita dalla crisi sembra piuttosto richiedere di riscrivere i termini del patto tra i diversi attori sociali. All’interno dell’immaginario della libertà generativa, il termine “alleanza” – la cui radice etimologica è quella del verbo legare – è un elemento immediatamente riconoscibile. Infatti, dato che il processo generativo è relazionale, ne segue che la cura del contesto e dei suoi rapporti non è una perdita di tempo, una riduzione della potenza, bensì una condizione della propria stessa possibilità di darsi. Per definizione, l’alleanza va concepita in rapporto a un confine che, stabilendo un dentro, si pone in relazione a un fuori. Il movimento, pertanto, è duplice.
Da un lato, non esiste alleanza se non entro dei confini e dei limiti: e, in questo senso, un ruolo importante è certamente svolto dal territorio che rimane, oggi più di ieri, un contesto cruciale. Secondo Porter e Kramer, per creare valore condiviso, oggi le società avanzate devono “favorire il miglioramento delle tecniche di sostegno alla crescita e rafforzare i cluster locali di fornitori collaborativi allo scopo di accrescere l’efficienza complessiva”. Dall’altro lato, l’alleanza aiuta a non dimenticare che si è in relazione con un mondo più ampio, il quale può essere visto come stimolo e come interlocutore, più che come avversario o come minaccia. È proprio per poter entrare in relazione con il mondo più grande, con i linguaggi con cui è organizzato, con le opportunità di cui è portatore, con la diversità di cui è espressione, che ci si allea. Nell’epoca della “seconda globalizzazione”, l’obiettivo dell’alleanza non è la chiusura – regressiva e conflittuale – ma l’apertura relazionale – sensata e sostenibile.
Contrariamente alla fase postbellica – quando i mondi erano per lo più separati –, le nuove alleanze di cui abbiamo bisogno si qualificano per la loro natura relazionale. Ci si allea non per costruire barriere che vogliono sigillare, ma confini che intendono consentire la differenza e permettere una relazione; non in uno spirito residuale e reattivo, ma come opzione strategica e consapevole. Allearsi significa infatti creare le condizioni che permettono di poter scambiare con cerchie più ampie senza perdere consistenza interna, esattamente come avviene con la formazione dell’identità pensata come ipseità. In un mondo complesso e in movimento, le nuove alleanze non possono che essere multiple e multilivello: essere alleati con qualcuno non esclude la partecipazione ad altre alleanze né a cerchie più ampie o più ristrette. Il problema nasce solo di fronte a un palese conflitto di interessi.
E, oltre che tra simili, le alleanze hanno luogo anche tra diversi – perché stare in relazione al mondo significa imparare a confrontarsi con le sue molteplici sfaccettature già all’interno dei propri gruppi – e con i lontani – oggi disponiamo di condizioni per cui la costruzione di reti e la gestione della comunicazione permette tale soluzione. E questo è necessario perché la struttura del mondo sociale che abbiamo creato attraverso il processo di razionalizzazione è ormai globale; il che concretamente significa che non è più possibile produrre valore senza entrare in relazione con tale infrastruttura e a prescindere da quei linguaggi su cui sono costruiti i circuiti globali. È nella sua capacità di mescolare le carte, di ampliare le relazioni, di diffondere nuovi linguaggi, di aprire orizzonti di senso più ampi che l’alleanza, nel quadro storico nel quale stiamo cominciando a vivere, può essere generativa.
Tale obiettivo non va cercato attraverso una chiusura che contrappone il dentro al fuori – quel “legare” reattivo che continuamente ritorna nelle società avanzate –, ma attraverso un rimettere insieme, un riconnettere che, lavorando sul piano funzionale – infrastrutture, agglomerazioni, investimenti – e su quello simbolico-immateriale – bellezza, qualità della vita, senso condiviso –, permette non solo di produrre ma soprattutto di far penetrare il valore in una comunità o in luogo.
Noi sappiamo che la natura del capitale oggi è assai complessa, dal momento che tocca diverse dimensioni: prima di tutto, il capitale finanziario e quello tecnico-strumentale, ma poi, più estesamente, la conoscenza tecnica, il know how incorporato nel lavoro, le reti di distribuzione e di accesso ai mercati, il capitale sociale e culturale diffuso, il patrimonio infrastrutturale. Una tale situazione può essere affrontata e, entro certi limiti, gestita attraverso l’aumento della dimensione di impresa – con il risultato di creare veri e propri colossi organizzativi, più grandi persino di alcuni Stati nazionali. Diversamente, essa può essere affrontata attraverso la logica dell’alleanza, a partire dalla realistica presa d’atto del fatto che il capitale oggi è, in buona misura, socializzato; in altre parole, esso stesso è frutto di alleanze. In un contesto del genere, di Stato e pubblica amministrazione c’è bisogno come di un soggetto collettivo in grado di svolgere un’azione essenziale di coordinamento, regolazione, negoziazione.
Nella logica sussidiaria il ruolo pubblico di matrice statuale rimane essenziale, in particolare, con riferimento a due livelli di azione: quello dell’universalizzazione – cioè della creazione di condizioni comuni a universi che definiscono i confini di una comunità, presupposto di ogni cittadinanza ordinata sia sul piano sociale sia su quello economico –, e quello promozionale, che consiste nella capacità di intervento diretto o indiretto rispetto a situazioni o contesti di evidente inadeguatezza, a fronte dei fallimenti delle altre soggettività. Tali funzioni rimangono strategiche per poter navigare nel mare della “seconda globalizzazione”, oltre che per garantire condizioni di diritto, legalità, cittadinanza, contribuendo a limitare i ripiegamenti localistici e corporativi che, in una condizione di forte pressione come quella nella quale ci troviamo, non possono che essere all’ordine del giorno.