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#Cossiga Cosa fare dopo le dimissioni dal Quirinale

Un ricordo dell’amico editore/direttore del Gruppo Adnkronos Giuseppe Marra
 
Quando ci sarà un nuovo ordine mondiale, per ora appena in fase di gestazione, sarà possibile scrivere la storia veritiera dell’Italia democratica e quella personale di Francesco Cossiga.
In questa sede non mi è stato chiesto di iniziare questa riscrittura, ma, vista la mia lunga amicizia con il Presidentissimo, come mi piaceva chiamarlo nelle nostre molteplici telefonate quotidiane (a lui non dispiaceva quel titolo superlativo), mi è stato chiesto solo di raccontare qualche momento non svelato della sua vita privata.
 
Due momenti diversi, se non opposti, hanno segnato il soggiorno di Cossiga sul Colle. Il primo è stato quello del Presidente notaio, introverso, dai lunghi silenzi e dai passi felpati. Questa fase è durata poco più di un lustro, fra il 1985 e il 1991. In questi anni, di silenzio ma non pigri, Cossiga lanciò un solo segnale su una certa reticenza del sistema politico. Chiese quali fossero i poteri del Capo dello Stato in caso di guerra. Quella richiesta scatenò una valanga di interrogativi nella Roma politica e alla fine fu creata la Commissione Palin.
 
Il Cossiga estroverso, dei colpi di piccone, si rivelò alla fine della guerra fredda. In questa fase la sinistra comunista e quella massimalista provarono a chiamarsi fuori dalle compromissioni con i vari governi, di cui non avevano mai fatto parte formalmente per insuperabili veti internazionali, attaccando l’uomo che più di ogni altro aveva garantito, nell’epoca della contrapposizione dei due blocchi, i rapporti dell’Italia con gli amici e gli alleati occidentali.
In questo momento turbolento Cossiga non accettò di diventare il capro espiatorio su cui scaricare tutte le colpe di un sistema politico oramai nell’ora crepuscolare. E agli attacchi rispose con picconate. Prese allora forma il Cossiga mediatico, in bretelle, che sferzava tutti: il suo partito, la Dc, perché tardava a prendere atto della fine di un’epoca e il maggiore partito dell’opposizione, il Pci, che sperava di seppellire i vecchi accomodamenti prendendo di mira il campione dell’Italia atlantica e della Gladio. “Il Pci sapeva di questa organizzazione segreta. Me ne informò Emilio Taviani” scrisse non smentito Cossiga. Di qui il tentativo del Pci, mai formalizzato in Parlamento, di chiedere l’impeachment del Picconatore.
 
Alla fine di questa parentesi fortemente conflittuale, in un discorso televisivo molto bello e apprezzato Cossiga annunciò il 28 aprile 1992 le dimissioni dalla Presidenza della Repubblica.
E ora che si fa? Mi chiese un pomeriggio mentre ci trovavamo nella sua casa al rione Prati, a due passi dal Palazzaccio.
Non sapevo cosa dire, anche perché Cossiga sapeva sempre cosa fare. Allora, quasi a volerlo esortare a una tregua politica, ricordai quello che aveva fatto De Gaulle.
 
Dopo avere perso il referendum da lui voluto, peraltro su questioni di secondaria importanza, come il trasferimento dei poteri ad alcune Regioni e la trasformazione del Senato, il generale aveva annunciato le dimissioni da Presidente della Francia nello stesso giorno di Cossiga, il 28 aprile, ma di ventitré anni prima, e si era ritirato per un breve periodo in Irlanda, Paese che pure Cossiga amava molto.
Di quel soggiorno di De Gaulle nella terra di Joyce ricordavo alcune immagini. Il Generale che passeggiava tutto solo lungo spiagge deserte, in uno scenario quasi lunare, con lo sguardo rivolto all’Atlantico e all’orizzonte.
 
Cossiga mi ascoltava in silenzio, sembrava quasi interessato al mio racconto. Prendendo spunto dall’Ulisse di Joyce, aggiunsi, che se fosse andato lì avremmo potuto girare un corto sul suo ritiro nell’Itaca irlandese.
In fondo, nell’Ulisse di Omero come in quello di Joyce si racconta l’avventura dell’uomo nel mondo. L’uomo che nel viaggio nutre di umori nuovi la sua identità senza smarrire quella originaria. Nel caso di Cossiga, quella sarda e quella italiana. Era anche un modo per tenersi fuori per un po’ dal cicaleccio dei cortili romani e favorire nella quiete la riscrittura più veritiera della sua biografia.
 
Cossiga mi fissò a lungo. In silenzio.
Eravamo amici da anni, ripeto. Avevo imparato a leggere i suoi sguardi e a intendere i suoi silenzi. E così mi fu chiaro quello che lui non disse.
Caro Pippo, io non sono De Gaulle e l’Italia non è la Francia. Da noi la cronaca fa premio sulla storia. E se abbandoni la scena non ti dimenticano, ti massacrano. Ricorda il mio amico Andreotti. Tirare a campare è meglio che tirare le cuoia.
Che avessi letto correttamente i suoi pensieri mai espressi me lo confermarono gli avvenimenti successivi. Altro che paesaggio lunare, altro che passeggiate sugli arenili della Itaca irlandese. Il Picconatore tornò presto al potere della parola, del sapere. Come aveva teorizzato uno dei padri della filosofia moderna, Sir Francis Bacon, le cui opere Cossiga aveva divorato fin dagli anni dell’università, il potere è sapere e il sapere è potere.
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