Francesco Cossiga aveva una concezione dell’economia diversa da noi economisti, più pratica e, quindi, più politica. Aveva infatti un’alta considerazione dell’economia “vissuta” e una bassa considerazione dell’economia “teorica”, perché coglieva – con ironia tutta sassarese (qualcosa di diverso, ma non così profondamente, dall’humor britannico) – la critica rivolta alla professione che, essendo ormai impegnata quasi esclusivamente a mettere a punto modelli deduttivi, considerano la realtà uno dei casi possibili, anche se non il più interessante. Cossiga era homo politicus con uno spiccato senso pratico sorretto da una solida teoria e non è quindi un caso che non trovasse un punto in comune con gli economisti, soprattutto quelli che indugiano nel presentare i comportamenti dell’homo economicus, che egli ben sapeva non esistesse al di fuori della teoria (e, semmai fosse esistito, lo avrebbe certamente tenuto fuori dalla porta). La società – e la politica che la interpreta e la rappresenta – è ben diversa.
Colsi perciò la sua sfida di scrivere un libro per dimostrare il contrario, forse è meglio dire che promisi solo di dimostrare perché gli economisti sbagliano, senza che la loro materia cessasse d’essere scienza, intesa in senso moderno, quello insegnatoci dalla filosofia della ricerca scientifica. Egli stesso propose alla Mondadori il mio lavoro che fu pubblicato sotto il titolo, scelto dall’ottimo Marco Vigevani, Gli enigmi dell’economia, e diventò il mio best seller.
Nondimeno Cossiga, nella sua inesauribile fama di sapere (egli era una vera macchina per pensare), mi sottoponeva a continue domande sulla interpretazione che la teoria dava dei fatti concreti che di volta in volta, con una sequenza quasi drammatica, coinvolgevano il Paese e lui stesso nell’esercizio dei prestigiosi incarichi ricoperti; dava seguito ai miei tentativi (è giusto precisare che tali sono) di fornirgli spiegazioni leggendo i buoni testi sull’argomento da me suggeriti. Tuttavia aveva una chiara percezione che l’economia descritta nei nostri libri, soprattutto quelli di testo, non era quella che egli quotidianamente viveva. Negli ultimi anni di confusione economica crescente a livello interno ed europeo-internazionale, la sua domanda ricorrente era “chi comanda in Italia e chi nel mondo”; questa sua “curiosità”, non riguardava i Governi, ma le lobby di potere, perché ben sapeva che erano queste a dettare legge svilendo i Parlamenti.
Mi dedicavo a questo gioco di interpretazione ben sapendo – avendolo vissuto in prima persona più di una volta nel mondo bancario, imprenditoriale e nella pubblica amministrazione – che così accade e, quindi, lo scambio di valutazioni con un così grande Maestro tornava utile per la mia professione. Non credo che Cossiga avesse bisogno del mio conforto, potendo disporre di un’ampia gamma di fonti di informazione, ma voleva verificare se io fossi in condizione di aggiungere qualcosa alla luce delle mie interpretazioni teoriche inevitabilmente basate sul “se …, allora …” (if … then …). Questo esercizio si intensificò negli ultimi anni prima della sua scomparsa che ha lasciato in noi e nel Paese un vuoto incolmabile.
Aveva infatti la percezione che le istituzioni democratiche contassero sempre meno e che, scomparsi i grandi burattinai dal volto noto, dietro le quinte dell’economia e della politica avessero preso il posto volti ignoti, dagli intenti altrettanto ignoti, ma pieni di ignavia per le sorti del popolo e delle nazioni. Fu allora che affermò di non temere tanto costoro, quanto il vuoto della politica. Era per lui del tutto ovvio che vi fossero persone siffatte, ma esse potevano imporre la volontà perché la politica era latitante o prona alle loro voglie.
Che l’economia vissuta contasse più della politica, lo dimostra il fatto che, nel settennato da Presidente della Repubblica, aveva insistentemente chiesto di aggiungere ai suoi consiglieri uno che sapesse di economia teorica e pratica, ma le strutture interne del Quirinale si opposero e il suo Partito di origine chiese che provenisse dalle loro file. Nacque perciò una mia collaborazione informale con Cossiga volta a interpretare ogni aspetto rilevante dei fatti economici interni ed internazionali, con riferimento specifico alla formazione delle leggi, soprattutto quelle riguardanti l’intervento dello Stato nell’economia, ma non solo; ciò che voleva sapere è se gli effetti attesi con i provvedimenti pubblici avessero un fondamento teorico e come i mercati li avrebbero valutati. Secondo un suo stile di lavoro, egli registrava gli argomenti a favore e contrari a una determinata scelta e i motivi per cui aveva deciso di apporre la sua firma a nuova legge o assumere una data posizione. Se le mie conoscenze sono fondate, dovrebbe esistere un archivio sconfinato che mai gli storici dell’economia avrebbero sognato di poter disporre.
Parte di questo lavoro in materia economico-sociale confluì nel messaggio inviato il 26 giugno 1991 alle Camere per una riforma costituzionale che prendesse atto che il mondo era cambiato. Il suo messaggio cadde nel vuoto e meriterebbe venisse ripreso, meditato e attuato, soprattutto alla luce del rovesciamento degli ideali di civiltà dell’Unione Europea, dove al patto tra eguali e al rispetto della filosofia dell’economia sociale di mercato, nella quale Cossiga credeva fermamente, si è sostituita una nuova voglia di egemonia della Germania sugli Stati membri dell’Unione, senza passare da un assetto democratico ortodosso, ma per la trasformazione della filosofia di superiorità della razza fisica in razza economica. Posso testimoniare che il pensiero unico in economia ha sempre irritato Cossiga e oggi non sarebbero mancati i richiami, anche verbalmente violenti, indirizzati ai governanti perché lo contrastassero senza cedimenti. Alla luce del messaggio del 1991 attendo qualcuno che si cimenti nel sostenere il contrario!
Forse incuriosito, forse annoiato nel fare e dire le stesse cose, Cossiga concepì di accettare l’offerta di Vincenzo Maranghi di presiedere Mediobanca dopo la scomparsa di Enrico Cuccia. Ci fu una lunga negoziazione volta a valutare la fattibilità e l’opportunità politica della decisione. Quando si orientava al rifiuto, Cossiga mi incaricò di svolgere la funzione di intermediario nelle riunioni che si tennero a Milano sull’argomento. L’ultima che si tenne nello studio di Giampiero Pesenti, l’ultimo dei grandi della nostra economia, che comunicò agli azionisti del patto di sindacato d’aver avuto la richiesta da parte di Cossiga di designarmi in sua vece. Credo che Cossiga volesse compensare la mia uscita volontaria da amministratore delegato della Banca Nazionale del Lavoro voluta dal socialista Giampiero Cantoni per avere mani libere nella gestione come Craxi gli richiedeva. Maranghi disse che aveva un impegno per un funerale e che sarebbe tornato dopo due ore per discuterne. Ci intrattenemmo discutendo dell’economia italiana e mondiale, ma Maranghi non ritornò e la vicenda ebbe termine, con un giudizio molto severo da parte di Cossiga sul personaggio, non per il diniego alla sua proposta, che sarebbe stata comprensibile, ma per la forma sgarbata che assunse.
Ricordo questo episodio per confermare i motivi per cui Cossiga considerava l’economia teorica poco utile per spiegare l’economia vissuta, quella dei voti che si pesano e non si contano o quella dell’economia relazionale e familiare. Credo che mai come oggi la discrasia tra i due modi di intendere l’economia sia così ampia e che la politica abbia il compito di ridurla, se non vuole definitivamente affidarsi alle lobby di potere. Dopo secoli di tentativi democratici portati avanti anche da Cossiga, l’uomo è ritornato allo stato di suddito: invece di essere governato da leggi ritorna a essere governato da uomini. Nulla di nuovo, quindi, sotto il sole, ma il fenomeno si presenta con una raffinatezza perversione: il governo di uomini da parte di altri uomini trova le radici nei trattati internazionali interpretati come norme di valore superiore a quelle nazionali.
E’ la vittoria delle Costituzioni reali rispetto alle legali e la sconfitta della logica degli Stati-nazione. Non è, come si è scritto, la fine della storia, ma della democrazia. Attendiamo tutti che la politica ponga rimedio.
Paolo Savona