Per centocinquant’anni siamo stati abituati all’idea che la sovranità sta nello Stato e nella politica che lo gestisce ai vari livelli. Ma oggi siamo ogni giorno più consapevoli che la sovranità si è spostata altrove.
Certo non sta più nello Stato, visto che in molti casi (si pensi alla Grecia) l’autorità statuale è persino umiliata da decisioni prescrittive provenienti dall’esterno, l’impotenza della politica nazionale e delle assemblee rappresentative è evidente, assistiamo addirittura all’imposizione di un’etica eterodiretta rispetto alla dinamica socio-statuale propria.
Non sta evidentemente né nelle sedi tradizionali del potere politico (le assemblee elettive), né nelle cinghie di trasmissione dalla base sociale a tali sedi (la rappresentanza): si pensi al ripetitivo “ce lo impone l’Europa” dei nostri politici, valido addirittura per le riforme del mercato del lavoro interno.
Ma la sovranità non sta più neanche negli organismi sovranazionali, ormai svuotati della loro base di rappresentanza degli Stati membri e spesso ridotti a meri portavoce dei vincoli che i mercati impongono alle varie comunità nazionali.
La sovranità slitta sempre più in alto, nel potere incontrollato (democraticamente e collettivamente incontrollato) della finanza internazionale, con flussi e ricatti di potere che non hanno precedenti nella storia dell’occidente. Tutto è nascosto nel mitico termine “mercati”, di cui nessuno conosce il vero funzionamento, tranne forse i dirigenti di Goldman Sachs e i loro sodali attivi nei vari centri di potere sparsi per il mondo.
La sovranità si è quindi radicata nella categoria nazionale dei “tecnici”, che sono legittimati dall’esterno e perciò possono permettersi di dire alla politica, al sindacato, all’opinione pubblica: “Si fa come diciamo noi, o si rischia il fallimento”. Il furto di sovranità che tutti i giorni viviamo viene da quell’argomento, cioè dall’oppressione inaggirabile del debito pubblico. Così, si è costituito un governo tecnico fondato non sulla competenza, come si sente sempre dire, bensì sull’appartenenza, basato sulla scelta esplicita di un presidente del Consiglio interno al circuito che regola i flussi finanziari internazionali e su una scelta implicita di primato del mercato sulla politica.
E il popolo? Sovrano in Costituzione, destinato alla piazza o al mugugno.
L’austerità ci viene imposta dall’alto, da pochi, arriva da regioni lontane e viene subita dai cittadini. Si tratta di un processo opposto rispetto alla lunga saga dello sviluppo italiano, che è stato di popolo, attivato dal basso, fatto dai tanti soggetti che proliferando hanno determinato la massa critica che ha permesso al Paese di diventare in cinquant’anni ben altro da quello che era uscito dalla guerra e dal fascismo. Anche in tempi recentissimi, questa forma sociale dello sviluppo è stata la chiave della specificità italiana, di un sistema capace di generare benessere diffuso grazie a un meccanismo di creazione della ricchezza al quale riuscivano a partecipare praticamente tutti gli italiani, tramite l’impresa diffusa e le pratiche del reddito combinatorio familiare.
La vitalità molecolare non è stata priva però di intelaiatura istituzionale. A lungo hanno operato i grandi partiti di massa, compattatori ideologici e organizzativi della molteplicità sociale sempre più crescente; poi i soggetti intermedi, dai sindacati dei lavoratori alle tante forme della rappresentanza; poi ancora le nuove modalità di organizzazione sociale dal basso, dal volontariato all’associazionismo. La soggettività economica, la spinta all’individualismo, formidabili motori della crescita socio-economica, hanno sempre avuto dei pendant socio-istituzionali.
Una prima uscita possibile dall’attuale meccanismo processuale di perdita di sovranità è l’accettazione della extra-sovranità, che passa per l’arrangiamento individuale e collettivo. Continueremo a essere eterodiretti finché permarrà la zavorra del debito pubblico e la concentrazione subordinata sull’andamento dello spread. Sentiamo scivolare il Paese verso una sorta di pericolosa accettazione della sudditanza. In fondo, l’accettazione di diverse sudditanze è inscritta nella storia nazionale, e ci ha permesso anche di costruire forme di meticciato, non solo culturale, che hanno portato benefici complessivi alla passata dinamica sociale. Noi italiani siamo così adattativi da poter accettare di essere governati per qualche tempo non dallo Stato e dalle sue regole di sovranità, ma da una élite che sta dentro i ristretti circuiti (finanziari e non) della nuova sovranità.
In una fase di ciclo declinante della spesa pubblica e di recessione economica, la società si “ritraccia” attraverso l’assestamento di micro-sovranità in diversi ambiti: nell’arbitraggio dei comportamenti individuali (la spesa come i consumi energetici), nella gestione del patrimonio, nelle comunità identitarie e funzionali, nella tutela privata e privatistica della salute, nelle comunità di territorio. In questa prima reazione di accettazione, ognuno si ritaglia la propria piccola sovranità: la famiglia è sovrana sulla spesa alimentare, come il piccolo imprenditore sulla sua impresa.
L’altro effetto della crisi della sovranità tradizionale è invece la propagazione di un antagonismo errante, non più ideologico come in passato, che resta allo stato fluido per raggrumarsi in situazioni molteplici e variegate. È il dissenso dei soggetti che non riescono a fare ritracciamento e che quindi subiscono più degli altri la crisi delle sovranità tradizionali e l’imposizione dall’alto della nuova sovranità macro. Si tengono insieme così fenomeni diversi: dai no Tav ai giovani frustrati a causa delle mediocri prospettive occupazionali, dalla rabbia per gli squilibri di reddito o la tassazione eccessiva alla ventata attuale di antipolitica. Perché in Italia, a differenza degli altri Paesi europei, dove la contestazione si indirizza contro la dimensione tecnico-economica delle élites, l’antagonismo si rivolge contro la classe politica e il personale dei partiti, insomma contro la vecchia sovranità.