Forse nella ricerca del Censis l’uso della parola sovranità non è coerente con il suo significato costituzionale: la sovranità appartiene al popolo, dice l’articolo 1 della Costituzione. Questa sovranità può essere esercitata più o meno attivamente, ma non è suscettibile di una crisi di legittimità. Raramente però un uso improprio di un nobile termine è stato più felice. Infatti la ricerca mette in luce una somma di crisi: di identità della nazione, di efficienza della Pubblica amministrazione, della fiducia dei cittadini, di autorevolezza delle pubbliche istituzioni. Questo groviglio di private attese inappagate e di pubbliche inadeguatezze sta scomponendo il Paese ben oltre la sua tradizionale divisività.
Il grande colpevole è lo Stato, inteso come l’insieme di tutto ciò che è pubblico; sono in crisi tanto la sua autorevolezza quanto la sua capacità regolatoria. L’autorevolezza appartiene a una dimensione etico-politica del potere pubblico e si fonda non su vincoli giuridici, ma su sentimenti di rispetto. La capacità regolatoria consiste nell’attitudine a dare un ordine alla complessità, a stabilire priorità e gerarchie. Di qui due fenomeni che stanno caratterizzando la scena italiana. Il primo è costituito dalla “partecipazione impeditiva”. Si partecipa a un processo decisionale, non per renderlo migliore, ma per impedire che la decisione avvenga. E non manca chi lucra proprio su questa capacità di impedire che una decisione avvenga. La lunga storia delle grandi infrastrutture è costellata da episodi di questo genere. Il secondo fenomeno è costituito dal “policentrismo anarchico”. Pluralità di centri decisionali pubblici che hanno tra loro spezzettato il potere di decidere. Questi centri sono privi di un ordine, di una gerarchia, di forme di responsabilità.
Agli occhi dei cittadini il potere pubblico si presenta come una grande medusa con mille terminali nervosi, che copre ogni spazio possibile e che quando tocca fa male. Il peggio è che questa impressione a volte è fatta propria dagli organi di governo e travolge anche il pubblico che funziona. Proprio nel giorno in cui scrivo, su alcuni quotidiani c’è il caso di San Gimignano, città medievale patrimonio dell’umanità. È una delle 143 amministrazioni virtuose nella gestione del danaro pubblico, tanto che è stata esentata dal rispetto del patto di stabilità. Non ha debiti, né mutui. Ha le imposte più basse d’Italia e non ha l’addizionale Irpef. Tuttavia dovrebbe licenziare 35 dipendenti su 89. Ha, infatti, solo 7mila abitanti, ma alle autorità di governo è sfuggito che ha tre milioni di turisti l’anno. Quei dipendenti che il sindaco dovrebbe licenziare servono per parcheggi e musei che rendono più di 2 milioni di utili netti per anno. Se lì nasce una delle forme di “antagonismo errante” per usare un’altra delle felici espressioni del Censis, sarebbe difficile non darle ragione.
Una delle vie di uscita da questa crisi di credibilità del pubblico sta proprio nel riconoscimento e nella valorizzazione del “pubblico che funziona”, di modo che si cominci a dimostrare che non tutto è disastro e che c’è chi anche nell’attuale fase di difficoltà riesce a tenere comportamenti esemplari. Perorare il diffondersi delle buone pratiche attraverso la loro pubblicizzazione può essere un antidoto non decisivo, ma efficace alla cultura del declino.
Una seconda strada, più lunga, più difficile, ma con effetti più stabili riguarda i partiti politici. Il vertice dei poteri amministrativi è in gran parte connesso, direttamente o indirettamente, alla politica: sindaci, presidenti di Provincia o di Regione, assessori, governo nazionale. In molti casi la crisi di legittimazione dei partiti si riverbera necessariamente sul funzionamento della Pubblica amministrazione perché i partiti costituiscono il sistema nervoso di gran parte delle istituzioni pubbliche. I partiti in democrazia hanno due compiti: competere per l’esercizio del potere di governo e costituire un ponte permanente tra società e istituzioni. Ma nella loro storia recente, si sono progressivamente allontanati dalla società e, quasi esclusivamente, concentrati nella lotta per il potere.
Questo percorso, inizia, a mio avviso, negli anni Settanta. In quel periodo in Italia, come in molte altre società occidentali, emergono fenomeni del tutto nuovi che mettono in discussione il tradizionale rapporto tra partiti e società. Il femminismo confligge con il maschilismo proprio di tutti i partiti politici dell’epoca e l’ambientalismo confligge con il loro industrialismo. In una convenzione non scritta tra Dc e Pci, la prima occupava lo Stato e il secondo la società. La crescente inadeguatezza della macchina pubblica e la contestazione a sinistra del Pci svuotano quella convenzione.
Nei confronti dei nuovi fenomeni i partiti sono disarmati e non compiono gli sforzi necessari per interpretare la nuova società italiana. Il principale problema appare quello del governo del Paese, non quello della comprensione della società. Il compromesso storico nasce da questa esigenza ed è un patto per il governo, non un’alleanza per meglio rappresentare la società. Inizia così, a mio avviso, la lunga marcia di allontanamento dei partiti dalla capacità di interpretare ciò che accade fuori dei loro confini.
I nuovi partiti che emergono tra la fine degli anni Ottanta e gli inizi dei Novanta sono prevalentemente legati alle contingenze, vivono nella dimensione del presente, ignorano la dimensione del futuro. Scompare dall’agenda politica la riflessione sul ruolo degli intellettuali. Oggi i partiti politici devono riannodare i fili allora spezzati, tornare ad analizzare la società, a riprendere il rapporto con gli intellettuali, a costruire la politica, a rispondere alle aspettative: comprensione della società, capacità di decidere e di “narrare”. Saper raccontare con conoscenza e spirito di verità il presente, il passato, il futuro in modo che chi ascolta possa trovare una parte della propria identità in quello che il politico sta dicendo; si senta così partecipe e costruttore di una storia comune, non spettatore di un evento.