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Draghi, orgoglio e pregiudizio

Super Mario ha fatto goal. Non parliamo di Balotelli e della nazionale ma del numero 1 della Banca Centrale Europea che a Francoforte è riuscito a frenare l’emorragia della speculazione finanziaria, mettere in sicurezza la moneta unica e l’eurozona e soprattutto a offrire una importante sponda all’asse Bernanke-Obama. Non deve quindi stupire il plauso generalizzato che si è levato pressoché unanime dalla stampa nazionale ed internazionale.
 
Draghi ha fatto quello che doveva, meglio che poteva. Di lui si è detto che “non fa politica, ma è maestro nel capirla” (copy Giavazzi sul Foglio). Mai parole sono state tanto azzeccate. Il capolavoro machiavellico dell’ex governatore della Banca d’Italia è stato quello di spezzare l’asse nordeuropeo dei falchi e isolare – nella Bce e nel governo tedesco – il rappresentante della BuBa. Le mancate dimissioni di Weidmann hanno confermato che in questo momento particolare l’interesse tedesco corrisponde a quello europeo. Uno strappo sarebbe stato un guaio troppo grande da gestire da una Merkel in campagna elettorale. Se, come ormai appare scontato, la corte costituzionale tedesca il prossimo 12 settembre confermerà l’adesione della Germania al fiscal compact potrà completarsi la costruzione delle basi per una stabilizzazione della moneta unica.
 
Tutto risolto, quindi? Nient’affatto. Chi pensa che la Bundesbank abbia posto problemi capziosi e antieuropei svolge un’analisi sin troppo superficiale. La questione non è se la Bce abbia o meno l’autonomia di acquistare sul mercato secondario titoli di Stato europei. Non scherziamo. Il punto è che la Banca centrale ha assunto il principio – tutto politico – del primato assoluto della moneta, per la cui salvezza tutto è “illimitatamente” consentito. Anche il commissariamento di un Paese (o più di uno) attraverso il meccanismo diabolico della cosiddetta “condizionalità”. Sinora la letteratura giornalistica di casa nostra ha teso ad interpretare la signora Merkel e gli austeri guardiani dell’ortodossia finanziaria tedesca come i campioni di un’Europa soverchiante rispetto ai perimetri nazionali.
 
Guardando in profondità, e senza pregiudizi, possiamo apprezzare che è vero il contrario. La battaglia della Bundesbank e di un pezzo rilevante della élite germanica è volta piuttosto a salvaguardare il concetto di interesse nazionale. La tesi di Weidmann è che con il meccanismo messo a punto da Draghi la Bce antepone il valore della moneta a quello democratico della sovranità. E’ in questo senso che, secondo lui, la Bce va oltre il proprio mandato, divenendo – almeno potenzialmente – azionista dei singoli Stati europei che dovessero richiederne l’aiuto. Il modello tedesco in questo prevederebbe la possibilità di scegliere e, se necessario, persino di mettere in discussione l’adesione all’Euro.
 
Democrazia, first. Se proviamo ad indossare queste lenti – che non possono essere liquidate come “nazionaliste” – ci si può rendere conto che la vittoria di Draghi è sì un successo per l’Unione monetaria ma non è ancora un successo altrettanto chiaro ed evidente per l’Unione politica. Di questo sarebbe interessante poterne discutere. Senza quegli anatemi e quei pregiudizi che spesso, soprattutto in Italia, tendono a soffocare tutto ciò che non è “pensiero unico”.
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