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Ecco gli effetti positivi degli stimoli di Obama

Senza lo stimulus package del 2009 l’andamento dell’economia, del reddito e dell’occupazione americana sarebbe stato peggiore? È quello che ipotizza senza troppi giri di parole il Los Angeles Times citando l’ultima fotografia dello Us Bureau of Census su reddito e povertà negli States.
Per la prima volta dopo tre anni, il tasso ufficiale di povertà non è aumentato, mentre è diminuito di 1,4 milioni di unità il numero di persone senza copertura sanitaria.
 
È dunque certificato dall’Istat americana: le disposizioni sul credito d’imposta, il sostegno alla disoccupazione e i buoni alimentari hanno integrato il reddito di molte famiglie, consentendo a qualche milione di americani di galleggiare sopra la linea della povertà (indicata a 23mila dollari per una famiglia di 4 persone). Non è detto però che questi dati innegabili bastino a rafforzare la posizione relativa di Obama.
 
Certo un risultato lo hanno già prodotto. Romney ha infatti deciso di andare “oltre l’economia”, perché ormai convinto che prima di novembre non vi saranno indicazioni particolarmente negative su questo fronte. Zeke Miller di BuzzFeed nota che né Romney né Ryan hanno sfruttato la notizia degli ultimi deludenti dati relativi al mercato del lavoro in agosto. D’altronde non mancano ombre anche più spesse e minacciose. Secondo lo stesso rapporto, il reddito medio delle famiglie americane è sceso dell’8,1% dal 2007, ultimo anno prima della crisi – ciò che non sorprende – ma dell’8,9% dal 1999, segnalando forse una curvatura negativa di medio periodo. Ci sono poi, a rafforzare le tinte fosche di un’economia ancora zoppicante, l’aumento della disuguaglianza e della disparità di reddito.
 
David Firestone sul New York Times dice che il successo del pacchetto di aiuti all’economia non è stato sufficientemente spiegato agli elettori, e che i democratici mancano di una forte capacità propagandistico-populistica da opporre alla martellante critica repubblicana. Questa posizione potrebbe però essere superata, se il terreno di scontro non sarà più l’economia del passato ma quella del futuro. C’è una tradizione liberal-conservatrice, non necessariamente anti-statalista, che ritiene un certo tasso di disuguaglianza motore di sviluppo e dinamica sociale.
 
Romney e Ryan, conservatori realisti dell’Upper Midwest dove si gioca la partita decisiva per i Grandi Laghi, cercheranno di collegare questa tradizione endogena alla visione esterna (la “missione americana”) forgiata nei centri politico-mediatici del Nordest. Mancano meno di due mesi e non possono limitarsi a coltivare il consenso ben radicato nelle Grandi Pianure, nel Bacino del Missisipi e nella Cintura del Sole. Alzeranno la posta, puntando forse, come dice William Galstone del New Republic, al dibattito mediatico, per provare che la retorica protestante populista di Obama è arrugginita e inadatta ad un nuovo quadriennio sfidante.
 
Si può inoltre ipotizzare che un’Europa in uscita dal lungo tunnel della crisi e della quasi insignificanza politica possa far risuonare qualche campanello di allarme, e attivare una reazione filo-repubblicana nei centri decisionali dell’Atlantico. Insomma, Nancy Pelosi potrà anche dire che “tutti sanno che Romney non sarà eletto”, ma questo consolerà assai poco Obama e il suo staff. La battaglia d’autunno sarà dura.
 


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