Come si fa a dire a qualcuno in maniera educata, gentile, fine-fine “farò tutto quello che vorrò io e quando lo deciderò io”? Semplice. Si va a Palazzo Chigi, si incontra il presidente del Consiglio e qualche ministro, si sta con lui a chiacchierare cinque ore con giornali e tv in ansiosa attesa, poi si dirama un comunicato congiunto nel quale si dice che non si è parlato di questo e nemmeno di quello, ma che comunque “la Fiat farà investimenti in Italia solo quando sarà venuto il momento giusto per farli”. E il dibattito è chiuso.
Più o meno sabato scorso è andata così e forse era fuori luogo sperare in un esito diverso. La Fiat di Sergio Marchionne segue da tempo una linea che può certo non essere condivisa, ma che sicuramente è coerente, senza sbandamenti. Ha investito (facendosi dare i soldi da altri) in Usa, in Polonia, in Serbia, in futuro anche in Cina; in Italia ha chiuso stabilimenti (Termini Imerese), ha annunciato che altri sono in bilico, è uscita dalla Confindustria, ha lanciato un attacco contro il sindacato (Fiom in testa) che non ha precedenti, o ne ha pochissimi e non edificanti. Il perché è stato detto, spiegato, commentato in tutte le salse: Marchionne ritiene che l´Italia di oggi, senza una svolta di 180 gradi nelle sue bizantine relazioni industriali, sia un Paese nel quale l´impresa non può svilupparsi. Quindi o si cambia musica o gli imprenditori non potranno far altro che andare a mettere i loro denari dove pensano di poter ottenere dei ritorni economici, visto che scopo di investe è di realizzare un profitto e nient´altro.
E´ un concetto che dopo il vertice di sabato, con l´annuncio dell´immancabile apertura di un tavolo sul caso Fiat, è stato ancora una volta chiarito e ribadito dall´azienda. Il Lingotto in Italia perde soldi. Li perde – dice – perché il mercato da noi va peggio che altrove, perché ha qui un eccesso di capacità produttiva con gli impianti usati solo al 50 per cento, perché il costo del lavoro è più alto che altrove, ecc. Non dice che i suoi modelli non piacciono e che gli italiani comprano poche auto perché sono rimasti senza soldi (ancora non si sa quanto costerà la seconda rata dell´Imu) ma quelle poche le preferiscono made in Germany. Comunque sia per il momento non c´è neppure un euro per l’Italia.
A meno che… Nel comunicato di fine vertice non si dice molto di più, ma Marchionne e i suoi hanno spiegato che la Fiat investe più volentieri nei Paesi che credono nell´industria dell´auto. Che ci credono, nel senso che la finanziano. Così è stata comprata la Chrysler grazie agli aiuti di Barack Obama, si sono fatti gli stabilimenti in Brasile, Polonia, Serbia grazie alla generosità fiscale di quegli Stati. Insomma, chi vuole capire capisca. La Fiat è stanca di sentirsi accusare di aver beneficiato per decenni del sostegno pubblico, quindi non lo chiede. Però se ritornasse spontaneamente, magari sulla spinta delle proteste sindacali di fronte alla minaccia di nuova disoccupazione, potrebbe favorire l´arrivo di quel “momento giusto”. Chissà.