C’è uno scollamento tra quello che le elezioni rappresentano come momento di sintesi sociale e ciò che rappresentano (sarebbe meglio dire, come SI rappresentano!) come evento mediatico. Anche i media partecipano al voto, e grazie alla loro visibilità possono ingigantire questo effetto-scollamento. A maggior ragione questo è vero nell’elezione più televisiva della storia, le presidenziali degli Stati Uniti. Dal Colorado al New Hampshire, passando per gli Stati decisivi del Midwest-Grandi Laghi (Ohio, Wisconsin, Iowa) e quelli del Sud atlantico (Florida, Virginia), i due partiti da aprile a settembre hanno investito massicciamente in spot televisivi, spesso il doppio di quanto fatto nello stesso periodo del 2008.
Questa è la parte “partigiana” dello scontro mediatico, per definizione in equilibrio. Poi c’è quella che passa per i grandi circuiti internazionali e presso la quale Obama gode di un vantaggio naturale, grazie alle possibilità che gli offre l’essere presidente in carica. Così, quando domani Obama si rivolgerà all’Assemblea generale dell’Onu, potrà far valere la sua carica retorica multilateralista – il marchio di fabbrica del suo successo nelle opinioni pubbliche europee.
C’è però, un però. Anzi tre. In primo luogo, quella carica si è stemperata, moderata dal realismo geopolitico cui la politica estera americana sembra essersi riadattata nell’ultimo anno. Secondo, i delegati dell’Onu possono applaudire e rilasciare commenti anche entusiasti sull’inquilino della Casa Bianca, ma non voteranno il 6 novembre… Infine, la classe dirigente americana non può limitarsi a raccogliere idee, consigliare, muovere le fila da dietro le quinte; in pratica, oltre alla capacità di vedere le cose, bisogna saper guidare. È il dilemma strategico di un Paese con una forza imperiale in un mondo che è sempre più multipolare, dilemma incarnato da quello che l’ex capo di Stato maggiore Michael Mullen definisce il peggior nemico della leadership Usa: il suo debito. Il combinato disposto di questi tre “però” non depone necessariamente a favore di Obama. Ottimo comunicatore, si trova di fronte ad una sfida che comporterà ben più delle capacità retoriche.
Basta leggere l’analisi svolta da Shlomo Ben Ami, influente ex ministro degli esteri israeliano, per capire quale sia la posta in gioco. Se c’è un consenso ampio verso la linea adottata in Asia negli ultimi due anni, non lo stesso si può dire circa la linea europea, di cui il Medio Oriente è una ramificazione implicita. Francia e Gran Bretagna non ripetono in Siria lo scenario del 2011 in Libia, anche perché nel frattempo l’ascesa egiziana ha complicato i giochi, rendendo l’esito pro-occidentale della crisi siriana meno probabile e scontato. È questo quadrante, compreso tra Europa meridionale-balcanica, Corno d’Africa e Golfo quello che deciderà maggiormente degli orientamenti pre-elettorali americani. Il fatto stesso che escano libri come quello di Carl Higbie, Navy Seal ferocemente critico verso la strategia di Obama in Iraq, testimonia come il dibattitto sul “rientro nell’area” (con una leadership forte, e anche in grado di imporsi all’Europa) non sia affatto secondario, e che anzi potrebbe diventare, nei prossimi mesi, un tema mainstream.