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Il ritorno dello Stato imprenditore è una sciagura

Il 27 Ottobre 1964, Ronald Reagan, di fresca uscita dal partito Democratico, pronunció in televisione, a sostegno della campagna presidenziale di Barry Goldwater contro Lyndon Johnson, un famoso discorso dal titolo “Un tempo per decidere” che ancora oggi rimane profondamente esemplificativo della visione del Partito Repubblicano statunitense relativamente al ruolo dello Stato nell’Economia. Tra i molti passaggi degni di nota uno mi sembra particolarmente significativo: “Un Governo non puó controllare l’economia senza controllare le persone. E quando un Governo fa questo deve usare la forza e la coercizione per raggiungere i propri scopi. I Padri Fondatori sapevano che, al di fuori delle proprie funzioni legittime, il Governo non è in grado di agire economicamente con la medesima efficacia del settore privato”.
 
Quasi tre anni piú tardi, il Parlamento Italiano approvava la legge 27 Luglio 1967, n.685 – Programma Economico Nazionale per il quinquennio 1966-1970 – il cui fine era “il superamento degli squilibri settoriali, territoriali e sociali che caratterizzano tuttora lo sviluppo economico Italiano, mediante una politica costantemente rivolta alla piena occupazione ed alla piú alta ed umana valorizzazione delle forze di lavoro che costituisce impegno permanente della programmazione” . I 255 articoli degli allegati coprono sostanzialmente ogni aspetto della vita economica nazionale, dalla difesa del suolo, allo sport, al teatro, alla bilancia dei pagamenti. Particolarmente interessante è l’articolo 202 in cui si afferma che “le imprese pubbliche e a partecipazione statale dovranno sviluppare il proprio intervento nei settori di base e dei servizi e in attività manifatturriere in modo da indirizzare l’intero sviluppo economico nazionale”. Decisamente agli antipodi rispetto alla posizione di Ronald Reagan.
 
Sono passati piú di 40 anni dal discorso di Reagan e dalla legge 685. Oggi il CNEL presenta un rapporto sul mercato del lavoro in Italia da cui emerge che in questi decenni la perdita di competitività nel nostro sistema è stata continua ed inesorabile. La produttività del lavoro, i salari reali nell’industria ed il costo del lavoro per unità di prodotto sono calati in rapporto a tutte le maggiori economie occidentali. Lo scenario economico globale si è profondamente trasformato e la piú grande azienda per capitalizzazione di mercato della storia economica mondiale non è nata per iniziativa di un pianificatore pubblico ma per la capacità creativa ed innovativa del privato. Si tratta, come a tutti noto, di Apple la cui capitalizzazione è pari a 656 miliardi di Dollari (pari a 13 volte gli utili previsionali 2013), vale a dire il 153% della capitalizzazione di tutte le imprese quotate sulla Borsa Italiana o, se preferite, il 41% del prodotto interno lordo Italiano.
 
È un bene che in Italia si sia creato un dibattito su come invertire un trend che sembra essere di inesorabile declino dell’economia. In questo dibattito si possono scorgere due scuole di pensiero, una a favore dell’incremento del ruolo pubblico in economia ed una volta a liberare le imprese dai vincoli che ne hanno frenato lo sviluppo.
L’articolo pubblicato da Formiche.net a fima del Prof. Pirro è evidentemente esemplificativo della prima corrente di pensiero. Il Professore, pur partendo dalla condivisibile affermazione che è necessario mettere in campo strategie per fare fronte alla inesorabile desertificazione produttiva del Paese, identifica l’incremento del ruolo dell’azionista pubblico, anche tramite la Cassa Depositi e Prestiti, come possibile via di uscita.
 
La mia visione è radicalmente diversa. Parte dall’osservazione che, se si prende il rapporto tra spesa pubblica e PIL come indicatore della magnitudine dell’intervento pubblico in economia e lo si mette in rapporto con la competività dei diversi sistemi economici, si nota come gli unici paesi a comparire ai vertici di entrambe le classifiche sono Svezia e Finlandia. I primi tre Paesi per dimensione dell’intervento pubblico in economia (Irlanda, Danimarca e Francia) sono, rispettivamente, al 27°, 12° e 21° per competitività. La Svizzera, primo paese in termini di competitività è 32° per spesa pubblica i. L’Italia ha un onorevole 11° posto per spesa pubblica e 42° per competività (sotto Panama, Repubblica Ceca e Thailandia).
 
Io credo profondamente che il futuro della nostra economia non passi attraverso l’impresa pubblica ma attraverso la capacità del Governo e del Parlamento di rimuovere gli ostacoli sul cammino dello sviluppo delle nostre imprese.
La piú alta pressione fiscale del mondo, il 128° posto al mondo per tempo necessario all’espletamento degli adempimenti fiscali, una burocrazia che richiede, per ogni azienda italiana, 7,13 giorni/uomo per fare fronte alle pratiche amministrative (pari ad una tassa occulta pari all’1,5% del PIL), la sostanziale assenza di un mercato del capitale di rischio a cui le nuove imprese innovative possano attingere i capitali per lo sviluppo (il venture capital in rapporto al PIL in Italia è pari ad un centesimo di Israele), l’assenza di mobilità sociale (che fa si che, unico paese sviluppato al mondo, l’Italia esporti e non importi talenti) sono tutti fattori incompatibili con la crescita economica.
 
In Italia non manca l’imprenditorialità privata ma mancano le condizioni per farla fiorire. Ritornando al pensiero di Reagan “milioni di individui che prendono le loro decisioni di spesa sul mercato, allocheranno le risorse sempre meglio di qualunque meccanismo di pianificazione centralizzata da parte del Governo”. La via di uscita è fare si che lo Stato si dedichi alla cura dell’efficienza del mercato e non all’intervento diretto in Economia. La storia ci ha insegnato che la pianificazione economica ha fallito; è tempo che anche in Italia si faccia tesoro di questo insegnamento. Lo Stato non deve essere giocatore, ma curare le condizioni del green. Il drive lo deve tirare il privato.
 
Massimo Brambilla è managing director di Fredericks Michael & Co
@massimobramb


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