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L’uscita giapponese dal nucleare è una opportunità per l’Italia

Il 14 settembre il governo giapponese ha annunciato l’arresto progressivo della produzione nucleare da qui al 2040. La decisione, secondo Le Monde, è stata una scelta semi-irrazionale presa sull’onda dell’emozione per l’incidente di Fukushima. A sostegno di questa tesi, il quotidiano dell’Esagono cita le voci del business nipponico, scettiche sulla realizzabilità di un progetto così ambizioso.
 
Essendo comunque passati 18 mesi da quella tragedia, e conoscendo il tradizionale sangue freddo giapponese, gli osservatori dubitano che la spiegazione “emotiva” sia sufficiente. D’altronde, Parigi difende legittimamente gli interessi del colosso statale-energetico Areva, come testimonia lo stesso Le Monde raccogliendo le caute reazioni del suo numero uno Luc Orsel. L’aspetto più interessante dell’intervista è contenuta nel finale. Se i gruppi elettromeccanici giapponesi usciranno dal nucleare nazionale (alla stregua della tedesca Siemens, che ha chiuso questo settore l’anno scorso), difficilmente saranno in grado di svolgere un ruolo nella competizione globale, dice Orsel. Per Parigi è una novità agrodolce: i gruppi che escono dal perimetro concorrenziale sono rivali, ma potevano essere alleati in joint ventures tattiche o strategiche per contrastare i nuovi produttori emergenti (Corea, Russia e Cina).
 
Oltre alle opportunità di sviluppo commerciali dirette, vi sono però implicazioni più sensibili per la delicatissima filiera ecologico-industriale a valle. Infatti Areva detiene materiale combustibile proveniente dalle centrali nipponiche e riprocessato secondo tecnologie francesi, attualmente stoccato in attesa di un improbabile ritorno in Giappone. Per sbloccare il quale si sono mosse le autorità diplomatiche, francesi e britanniche (anche la Gran Bretagna è interessata al flusso di materiali).
 
Il recupero del combustibile esausto, ovviamente, subirà uno stop se non vi è orizzonte temporale certo di reimpiego e diventerà “rifiuto” da stoccare. Se si aggiunge a questo quadro una Germania che nel prossimo decennio chiuderà i suoi impianti (a meno di ripensamenti), è chiaro che l’Europa si trova di fronte a una sfida tecnologica di non poco conto: non più recuperare, ma raccogliere, trasportare, smaltire e stoccare definitivamente quello che residua dalla gigantesca industria elettronucleare.
 
Nel Settimo situation report della Commissione europea sulla gestione dei rifiuti radioattivi (2011) viene sottolineata l’assenza di una “politica di gestione del combustibile esausto” in molti Paesi, l’assenza di impianti per lo smaltimento del combustibile esausto “rifiuto” vetrificato e inutilizzabile, e la necessità di raddoppiare entro il 2020 le capacità di stoccaggio in superficie (per i rifiuti a bassa radioattività) e in profondità (per quelli ad alta radioattività), proprio in vista del massiccio decomissioning delle centrali.
 
La direttiva 2011/70/Euratom spinge alla razionalizzazione di attività e flussi che sono stati per lungo tempo dispersi (come i rifiuti di laboratorio e radiografici), in parte protetti da prassi nazionalistiche e di difesa tecnologica. Il quadro nazionale continua a essere importante, tanto è vero che a questo livello dovrà essere adottato un “piano scorie” entro agosto 2013, ma sarà premiante solo se potrà fornire una risposta all’avanguardia. È qui che può entrare in gioco, secondo Davide Tabarelli di Nomisma energia, una capacità italiana specifica presente da tempo nei laboratori e nei centri di ricerca pubblica, e da tempo impegnata nella gestione della nostra eredità nucleare. Non avendo sviluppato propri grandi gruppi nella generazione, l’Italia ha potuto concentrarsi sulla gestione di un’eredità energetica e ambientale che, forse, non sarà solo nazionale, ma globale: una sfida difficilissima, ma affascinante, per il sistema-Paese.
 


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