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Letture kosher di Agosto-Settembre

“È successo oppure no? In un modo o nell’altro, nessuna memoria ha uno Stato, nessuno Stato ha una memoria”. Con queste parole si apre “1948”, un romanzo biografico travolgente se non vorticoso di Yoram Kaniuk − l’autore israeliano già definito dal New York Times: “Uno dei più originali e brillanti scrittori del mondo occidentale”.
 
Scrittura galoppante in costante bilico tra ironia intrisa di domande esistenziali, Kaniuk raccoglie ricordi personali di una nazione in uno stato di collettività perenne, descrivendo l’inferno dei singoli momenti da cui è sorta la decisione di fondare lo Stato d’Israele. Sono ricordi (e invenzioni) rampanti, lontani anni luce da qualunque idolo sionista, distanti da ogni mito collettivo. Una narrazione mirata, a tratti scomoda e di certo non canonica e anticonformista, quanto la linea letteraria e politica di Kaniuk, uomo, prima ancora che scrittore e opinionista.
 
Un vigile che dirige il traffico suonando lo Shofar, un Ben Gurion di bassa statura arrampicato sul famoso balcone di Herzel, impegnato a sognare il suo “focolare nazionale”, sono solo tracce di memoria espresse da un giovane e bravo ragazzo di Tel-Aviv divenuto un uomo in mezzo ad un acquario popolato da persone pronte a formare una nazione prima ancora che uno Stato.
 
Un ballo dal ritmo perturbante per l’annuncio della creazione di Israele, dettato da una radio poggiata accanto a un corpo di un compagno tagliato in due è solo una delle 184 pagine, dense di dolore, poesia e bellezza letteraria in un romanzo particolarmente personale, tragico, ferito e allo stesso tempo pieno di vitalità. Battaglie incessanti che assieme compongono una vita fatta di vendetta, tradimento e invidia, con un amore che esiste “solo se è tradito”. Fame, sete, sonno, solitudine. Un libro che a Kaniuk piacerebbe definire “un testamento spirituale”, scritto col sangue, col cuore e ironia e dedicato agli “amici morti e vivi… che sono stati in quell’inferno da macello e sì, hanno anche fondato uno Stato”.
 
Uno Stato sognato prima ancora che esistente, una conseguenza quasi secondaria di una sola e unica necessità: la sopravvivenza. Ricordi sfuggenti delle varie facce della verità e i suoi residui senza temere di distruggere i miti e restituendo all’esercito di supereroi le sue dimensioni reali, fatte di giovani sprovveduti che si trovano col fucile in mano, prima di aver imparato l’ebraico.
 
Una lunga e crudele guerra di cui protagonisti sono la causalità e l’incoscienza figli di un Paese nato e maturato nel proprio sangue. “Sono vecchio e malato” scrive Kaniuk “penso al nuovo Stato che ha fondato Ben Gurion, oggi ha sessant’anni, i suoi genitori ormai non ci sono più e gli eredi sono stupidi, idioti, ladri, cattivi, hanno dimenticato da dove sono venuti”. Dimenticando per l’appunto uno dei principali insegnamenti etici e morali espressi nelle Massime dei padri: “Poiché avrai sempre in mente da dove vieni e dove vai” (Pirkei Avot 3,1). Una descrizione impietosa di un Paese “profondamente cambiato” e un destino incessante già espresso dai Profeti e riportato lungo le pagine del libro: “Passai vicino a te, ti vidi mentre ti dibattevi nel sangue e ti dissi: vivi nel tuo sangue” (Ezechiele 16,6). Così fu, così è con la speranza che così non sarà.
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