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Perché l’affare Bae/Eads si sta complicando

“Se qualcuno è contrario a questa unione, parli ora o taccia per sempre”, recitava una formula un po’ desueta del matrimonio religioso. Ebbene, nelle nozze Eads-Bae Systems non siamo ancora all’altare e già si sono levate tante voci contrarie, che viene da chiedersi se gli stessi nubendi non le stiano alimentando ad arte, magari per alzare il prezzo sulla dote. Il ministro dell’Economia tedesco ha lasciato trapelare le perplessità di Berlino sulla ripartizione delle quote all’interno del colosso post-merger (60% Eads, 40% Bae Systems), ripartizione che l’amministratore delegato di Eads, Tom Enders, continua a difendere, ma che la Germania ritiene troppo sbilanciata a favore del partner britannico. A parlare dei rilievi tedeschi è oggi il Wall Street Journal, che sottolinea soprattutto la contesa sul ruolo dello Stato francese, visto come concorrente rispetto ad una Daimler che invece resta, al momento, interamente privata.
 
I dubbi e i timori di Londra, invece, sono stati resi noti e pubblici fin dall’inizio, e verranno condensati in un’inchiesta del Parlamento britannico avviata questa settimana e che dovrebbe concludersi tra ottobre e novembre. Ben al di là, dunque, della data del 10 ottobre, deadline per presentare il piano di fusione dettagliato alle autorità britanniche. Si può dunque scommettere che ci sarà una proroga significativa, e che più che un secco merger nello stile degli anni Novanta (con il pubblico e gli investitori messi di fronte al fatto compiuto) ci avvieremo a una sorta di fusione in fieri, capace, per la stessa dimensione economica-industriale, di catalizzare per lungo tempo gli interessi di tutto il mercato.
 
Mercato che non è fatto, ricordiamolo, solo da Stati e grandi subcontractors, ma anche da migliaia di medie imprese industriali e di servizi, spesso nei segmenti più avanzati dell’elettronica, elettromeccanica e comunicazioni. Non convince dunque lo slittamento ideologico operato da vari commentatori e non ultimo dal direttore della Chatham House Robin Niblett che, per alleviare le paure inglesi, propone un intervento diretto del governo nella compagine azionaria del gruppo. Non sarà aprendo un “intrigante” dibattito sul neo-interventismo, in salsa colbertiana o socialista-fabiana, a determinare l’esito e gli assetti di un processo che appare molto più complesso rispetto a una semplice triangolazione anglo-franco-tedesca. Più concreto sembra il tema dei costi che la razionalizzazione comporterà, nella stessa Gran Bretagna, dove importanti siti Eads e Bae Systems si trovano in aree come Galles e Scozia, affamate di industria. Saranno fondamentali, più del misurino della presenza degli Stati, gli accordi su impianti e piattaforme tecnologiche. In gioco c’è l’approntamento di un grande contractor continentale che dovrà, nelle sue linee di business, fare da vertice della catena del valore europea.
 
Un’indagine del Senato americano ha individuato oltre un milione di componenti sospetti e decine di migliaia apertamente contraffatti e finiti negli aerei della Us air force negli ultimi due anni. È qui il compito che si pone, in Europa, ai grandi gruppi a forte base nazionale come Rheinmetall in Germania, Saab in Svezia, Thales in Francia, Chemring e Cobham in Gran Bretagna, Finmeccanica in Italia: un gradino sotto i giganti che (forse) andranno a nozze, ma tanto più forti nel loro concretissimo ruolo di polmoni dell’indotto, snodi e presidi della base tecnologica continentale. Sgombrato il campo da confusioni con i piani più alti, potranno adottare strategie conseguenti. I segnali anche italiani non mancano, come l’accordo tra Agusta Westland e Northrop Grumman per gli elicotteri Csar e il deal Daewoo-Selex Elsag per le comunicazioni della Marina britannica, solo in questo mese di settembre.
 
 
 
 
 

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