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Quanti posti di lavoro ha distrutto Apple?

Apprendiamo dalle agenzie che, secondo uno studio di Michael Feroli, analista di JPMorgan, l’iPhone 5 farà crescere il Pil americano dello 0,33% nel quarto trimestre di quest’anno. Come minimo. L’impulso all’economia a stelle e strisce potrebbe arrivare anche allo 0,5%.

Il dato è ottenuto sottraendo al prezzo di mercato dello smartphone il valore delle componenti importate, e moltiplicando la differenza per i milioni di esemplari che ci si attende siano venduti entro la fine del 2012.

I calcoli sono semplici e impeccabili. Ma l’interpretazione che se n’è data elude una domanda banale quanto ovvia: chi non compra l’iPhone 5, i soldi li tiene sotto il materasso o li spende in altro modo?

A maggio Businessinsider ha pubblicato un articolo molto provocatorio: “Exclusive: Apple has hestroyed 490,000 American jobs” (Esclusivo: la Apple ha distrutto 490mila posti di lavoro negli Stati Uniti). Gli autori — Eric Platt e Ben Duronio — hanno individuato cinquanta società che, a causa del successo dell’azienda fondata da Steve Jobs, si sono trovate in difficoltà nel mantenere le loro posizioni sul mercato ed hanno dovuto tagliare il personale.

Il calcolo è ovviamente spannometrico e non ha nulla di scientifico. Ma in loro difesa va detto che la Apple — nel tentativo di smarcarsi dalle accuse di aver delocalizzato in Cina — aveva da poco dichiarato di aver creato o favorito la nascita di 500mila posti di lavoro nella madrepatria. Il conteggio però, includeva anche i dipendenti di FedEx e Ups che spediscono tablet e smartphone ai clienti.

Alla fine di questo balletto di numeri in libertà, il bilancio tra i posti di lavoro creati e quelli distrutti sarebbe quasi in pareggio.

Se vogliamo spostare la discussione su un piano più serio, può essere d’aiuto tirare fuori dal cilindro un libro non ancora tradotto in italiano: “Race Against The Machine: how the Digital Revolution is accelerating innovation, driving productivity, and irreversibly transforming employment and the economy” (In corsa contro le Macchine: come la Rivoluzione Digitale sta a accelerando l’innovazione, favorendo la produttività, e trasformando irreversibilmente l’economia e il mondo del lavoro).

Scritto da Erik Brynjolfsson, direttore del Center for Digital Business del Mit di Boston, e da Andrew McAfee, ricercatore nel medesimo dipartimento, il testo ha il merito di mettere a fuoco con chiarezza un tema scontato — ma inspiegabilmente assente dal dibattito pubblico.

La Rivoluzione Digitale sta rendendo inutili, obsoleti, un sacco di posti di lavoro. Così come molti impiegati e colletti bianchi si trovano a competere con operai e impiegati dei Paesi emergenti, allo stesso modo molte persone vedono la loro funzione in azienda svanire nel nulla. Il lavoro con cui si guadagnano da vivere, semplicemente, smette di esistere.

Tipografie, librerie e negozi di dischi sono le vittime più celebri di questi cambiamenti. Ma la trasformazione è molto più profonda e minaccia di coinvolgere professionalità sempre più avanzate.

Per rispondere al primo problema — la globalizzazione — la ricetta più popolare sembra essere aumentare la produttività del lavoro attraverso l’innovazione tecnologica.

Non è impossibile. Ma la trasformazione lascia le sue vittime sul campo. E queste vittime, sembra di capire, appartengono alla classe media. Nei Paesi occidentali l’aumento del divario tra la minoranza più ricca della popolazione ed il resto dei cittadini è un fenomeno ormai accertato. Anche in Germania, l’economia industriale più efficiente e avanzata del mondo, i salari dei lavoratori sono fermi da dieci anni.

Uno dei motivi è che, sempre di più, le aziende hanno bisogno solo dei lavoratori più brillanti, o di quelli in possesso delle conoscenze e delle competenze più avanzate. I lavori di routine servono solo se chi li svolge è disposto a vivere con poco, e a non aver troppe pretese. Altrimenti tanto vale andare in cerca di un software che li sostituisca.

La tesi di Brynjolfsson e McAfee non è nuova. È nata parallelamente allo svilupparsi dell’industria, con i moti luddisti dei primi anni dell’800. Anche Keynes negli anni trenta ha recuperato la tesi della disoccupazione tecnologica.

Nel 1995, a pochi anni dall’esplosione dell’industria informatica, il saggio dell’economista americano Jeremy Rifkin “La fine del lavoro, il declino della forza lavoro globale e l´avvento dell´era post-mercato” ha riportato in auge le preoccupazioni luddiste.

Nel 2012 è chiaro a tutti che i macchinari hanno portato benessere, non disoccupazione. E nel lungo periodo può valere anche per la Rivoluzione Digitale. Il problema è l’enorme velocità con cui si succedono le innovazioni. Sembra un processo infinito, inarrestabile. E mentre si attende un assestamento, i lavoratori sono costretti a correre.

Molti, questa gara all’ultimo secondo la stanno perdendo. Anche perché di disoccupazione tecnologica si parla raramente, e di essere «in gara contro le macchine» nemmeno lo sanno.

twitter@pfrediani

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