Al tempo dell’antica Roma, i candidati, per distinguersi dai comuni cittadini ed essere riconoscibili per le loro aspirazioni, erano tenuti a indossare una tunica speciale, bianca, il colore dell’innocenza e della virtù virginea. I tempi sono cambiati; e, almeno da quando è entrato in funzione l’esercizio della democrazia moderna (due secoli e mezzo più o meno, a far data dalla rivoluzione americana e dalle sue quattro libertà stabilite a Filadelfia nel 1776), i candidati non sono più obbligati a distinguersi per il colore delle spose (presunte illibate) e si vestono come meglio aggrada a ciascuno di loro.
La semplicità o la vivacità della veste conta poco più o nulla. La politica, infatti, è andata assumendo un colore specifico a seconda delle preferenze ideali. Il nero, oggi sconsigliabile, un tempo privilegiato, è tipico del fascismo prepotente, nerboruto sino alla violenza. Il rosso, si sa, è preferito dai rivoluzionari, da Garibaldi a Lenin: Palmiro Togliatti deviava, compiacendosi del suo «doppiopetto blu», che stava a rappresentare l’affidabilità del «migliore» come padrone delle masse comuniste rivoluzionarie in attesa dell’ora X e, assieme, di un modesto borghese. Il verde è il colore degli ambientalisti, i pacifici e i soverchiatori, i fissati col buco dell’ozono che altera le stagioni e provocherebbe maremoti e sismi sconvolgenti, e i cultori di una civiltà bucolica, pastorizia e utopistica. L’azzurro è collegabile alla monarchia sabauda o alla democrazia cristiana che l’aveva nel fondale del suo scudocrociato e, oggi, contrassegna i vessilli dei partiti fondati da Silvio Berlusconi. Il giallo era il colore dei re di Francia ai tempi delle monarchie assolute ed è da secoli l’emblema della Chiesa cattolica temporalista. Il viola già da solo indica oscuro e fantasioso livore, indignazione e insidiosità moralistica, comportamenti faziosi e intolleranti.
Comunque lo si giudichi, il colore è un segno di distinzione; di chiarificazione, persino. A seconda di quello che si adotta, l’elettore subito capisce qual è l’inclinazione del candidato. È così, e non c’è da ragionarci sopra, quasi che si ricorra ad un colore preciso avendo, però, in mente l’esatto suo contrario. Ma ora, in Italia, ci troviamo d’improvviso in presenza di una varietà di candidati, astratta espressione di un medesimo partito (o coalizioni di movimenti contrastanti o contraddittori che marciano uniti semplicemente in funzione della conquista di un premio di maggioranza che consenta loro di esercitare esclusivamente il potere), che hanno in testa progetti confusi e indifferenziati ma si pongono come leader di uno schieramento che, almeno sulla carta, parte vincente ed è, quindi, più che appetibile.
Si dirà che questa è la logica delle primarie: una volta adottatone il modello, non si può stare a sottilizzare se i candidati sono soltanto due o tre o quattro, come accade negli Stati Uniti, la democrazia fondatrice delle primarie, o possono essere anche più numerosi. Il problema che oggettivamente si pone è se i sei o sette (o dodici) candidati alle primarie del Pd, si differenziano l’uno dall’altro per visione politica, aspirazioni ideali, programmi di governo, scelte di campo internazionale; o se, invece, si presentino esclusivamente come esponenti di generazioni diverse e distanti anni luce o quali pretendenti di affermare il principio delle quote rosa, che sono più offensive che apprezzative dell’altra faccia della luna.
Il troppo storpia, è un detto sempre e comunque valido. A maggior ragione se, in sostanza, i molti candidati, al di là delle simpatie (o antipatie che sollevano) siano davvero politicamente giustificabili. Il timore vero è che sia il partito nel suo complesso – il Pd – a difettare di qualità distintiva. Se la sua specie è, assieme, rossa e bianca e azzurra e viola e gialla e via discorrendo, sicché, in fondo, non è un partito vero, ma un ircocervo squalificato o inqualificabile, in realtà non ha un colore preciso e, in definitiva, alcuna identità politica distinguibile.