Il premio Nobel per la pace all´Unione europea è una di quelle notizie che ti fa apprezzare di vivere qui ed oggi. Non capita spesso ultimamente. Eppure le motivazioni del Comitato di Oslo sono chiarissime: pace, sicurezza e prosperità in un Continente dilaniato da due guerre e una serie di conflitti etnici, religiosi, identitari.
Sappiamo che di fronte agli effetti della crisi più grave dal 1929 ad oggi ciò che è richiesto è una capacità di visione strategica senza precedenti, in Europa e in ciascuno dei 27 paesi che ne fanno parte. Una visione che dovrebbe riempire di contenuti l´invocazione che si sente da più parti sulla necessità di avere “più Europa”, di spingere oltre il processo di integrazione, di arrivare un giorno fino agli “Stati Uniti d´Europa”.
Per carità, è sempre importante sognare. Ma per evitare di gonfiare eccessivamente le parole dovremmo misurarle con alcune sfide concrete.
La più importante che abbiamo davanti è senz´altro quella della stabilizzazione economica, finanziaria e occupazionale nell´area euro. I fondamentali stanno migliorando, anche nella periferia (Grecia esclusa) e tra qualche tempo si tratterà di sconfiggere gli ultimi spettri della sostenibilità del debito nel lungo termine e della credibilità del progetto di unione monetaria.
Se avremo reso l´Europa della moneta irreversibile, dovremo aprire il capitolo di come rendere l´Europa politica possibile.
E in tutti i canoni tradizionali, perfino nelle iconografie classiche, accanto alla moneta c´è sempre la difesa.
Già, quella difesa europea di cui si parla da decenni ma che è ancora l´ultimo dei tabù nel percorso di cessione delle sovranità. Difesa europea vuol dire certo un esercito di professionisti sotto le insegne della bandiera stellata, certo una serie di missioni militari e non decise di comune accordo tra i governi dell´Ue (o, meglio sarebbe, dalle strutture europee dell´Unione). Ma difesa europea vuol dire anche acquisizione congiunta di mezzi militari e armamenti, vuol dire anche ricerca tecnologica e innovazione, vuole dire anche un´industria della difesa competitiva.
Ed è forse su questi ultimi punti che il sogno, non l´utopia, di una difesa europea un po´ si infrange.
Nessun governo europeo avrebbe problemi a mettere a disposizione di un unico plotone o battaglione i propri migliori soldati, né, tutto sommato, i propri aerei, carri armati, radar. Il tema principale è chi produce questi oggetti e chi li compra soprattutto.
Nei paesi che hanno ancora una “Moral Aussenpolitik”, una politica estera etica, si potrebbe porre la domanda del come si utilizzano le tecnologie militari e gli armamenti. Ma per la maggioranza il tema rimane: chi produce cosa e a che prezzo.
Bene, ciascun Paese in Europa ha ancora la sua posizione, sovrana ma spiccatamente nazionale. La vicenda recente della mancata fusione tra la Bae Systems e il colosso Eads ben racchiude tutte queste difficoltà.
Ma c´è qualcos´altro che mina per adesso il processo di integrazione europeo in materia di difesa. E cioè che non tutti i principali attori in campo hanno ancora consapevolmente deciso come declinare il loro interesse nazionale, prima di sublimarlo a interesse europeo.
Senz´altro non lo abbiamo fatto noi italiani. Troppo a lungo la sola espressione “interesse nazionale” è stata una categoria politica, strumentale a divisioni e battaglie a volte anche violente. Oggi, nel mondo che è post-ideologico e nel quale dobbiamo lavorare attorno a pochi punti fermi, il concetto di interesse nazionale diventa centrale per qualsiasi tipo di azione politica, economica, diplomatica, strategica.
L´Italia non ha mai avuto una riflessione aperta su un documento che negli Usa si chiamerebbe “National Security Strategy” e che elenchi le due o tre cose alle quali, soprattutto in periodi di austerity, non possiamo e non vogliamo rinunciare, perché sono parte di un patrimonio condiviso di Nazione e, in prospettiva, di cittadinanza europea.
La Strategia di Sicurezza Nazionale dovrebbe essere il compasso con il quale disegniamo il raggio dei nostri interessi strategici in questo inizio di XXI secolo, consapevoli che la necessità di razionalizzare le risorse porta con sé l´opportunità di prioritarizzarle. In questo senso, spetterebbe alle conclusioni di un dibattito parlamentare ma non solo un dibattito cioè aperto alle classi dirigenti e ai cittadini fissare i due/tre punti essenziali della nostra politica strategica. Tra questi punti, è difficile che manchi un approdo europeo convinto delle strutture di sicurezza e difesa, il progetto cioè di un esercito unico e di un´Europa che autorevolmente faccia sentire la propria (unica) voce.
Ad essere sinceri questa stessa operazione manca anche in Germania non a caso l´altro grande sconfitto della storia che di fronte a dossier come quello libico si è mossa goffamente e con una certa ambiguità. Definire una missione nazionale è però oggi doveroso, per i tedeschi, per gli italiani e non solo.
Questo riconoscimento di “autocoscienza nazionale” dovrebbe essere il primo passo verso una consapevole spinta all´integrazione europea in materia di sicurezza e difesa. Come in molti altri settori, la sommatoria di più debolezze non fa una forza. E´ bene che lo teniamo a mente alla prossima polemica su un intervento militare, su un voto al Consiglio di Sicurezza dell´Onu apparentemente incomprensibile o su un nostro soldato caduto al fronte, cui andrà un giorno tutto il merito di aver reso orgogliosa la nostra appartenenza al Paese e all´Europa.