Afghanistan, Iraq, Siria, Iran, Libia: l’ultimo dibattito televisivo tra i due sfidanti alla Casa Bianca, trasmesso ieri sera, ha confermato che l’impegno e la presenza americana nel Medio Oriente, nel cosiddetto “arco di crisi” tra Maghreb e Pakistan, è e resta una priorità bipartisan, un elemento di convergenza degli interessi nazionali.
Ci sono state differenze di tono, è vero, ma non secondo lo schema degli “ornitologi” (dem=colombe, Gop=falchi). A livello lessicale, è stato anzi il repubblicano a citare più volte il termine “pace” e la convivenza pacifica tra popoli come il criterio guida dell’azione internazionale degli Stati Uniti. Lo ha fatto parlando della Primavera araba, dove ha riconosciuto che Obama (il quale a sua volta ha riconosciuto l’appoggio ottenuto dai repubblicani sulla missione “Unified protector”) ha fatto un buon lavoro. E inoltre ha confermato l’impegno a fianco dell’Egitto della Fratellanza Musulmana, un punto su cui tutta la comunità strategica Usa ha oscillato nei giorni della rabbia post-Bengasi. Inoltre, ha attenuato molto le posizioni sul dossier nucleare iraniano, sottolineando l’impegno a trattare e dialogare più di quanto avesse fatto in recenti discorsi. Obama ha invece smentito seccamente l’ipotesi di un dialogo ai massimi livelli con il governo di Teheran, ipotesi che era partita dal sito israeliano Debka – attentissimo, per ovvi motivi, alla crisi iraniana, e perciò legittimamente interessato a influenzarne l’andamento anche con i rumours.
La questione siriana
In Siria i due candidati hanno mostrato un fondamentale accordo sul fatto che gli Stati Uniti debbano mantenere un ruolo di leadership, “ma non sul terreno”, come ha precisato Romney. Si tratta in pratica di individuare i referenti principali della rivolta, evitando che le armi finiscano in mani sbagliate. È possibile ipotizzare che questa posizione sia più un’apertura di credito ad Arabia Saudita e Qatar che alla Turchia, che si è esposta eccessivamente e direttamente, anche se è ancora presto per dirlo. Sull’Afghanistan Romney si è detto d’accordo con il ritiro dopo il 2014.
Il non detto su Mosca e Baghdad
I toni si sono accesi – anche senza differenziarsi troppo – sull’Iraq. Qui è bene fare una precisazione. Romney ha sostenuto che l’ipotesi di accordo strategico proposto da Obama (che voleva lasciare 10mila soldati in Iraq dopo il 2011) era una buona idea. Ebbene, l’accordo non si è materializzato sia perché si è cominciato a discuterne tardi (giugno 2011), sia per le fratture politiche interne al Paese mediorientale. Questo è un problema bipartisan, su cui tutta la comunità strategica Usa è impegnata. Tra le cose non dette in questo dibattito c’è il recente accordo militare tra Mosca e Baghdad, che segnala in modo clamoroso l’anomalia di un giovane impero, relativamente poco esperto nella gestione delle fasi post-belliche e che perciò non riesce a trasformare in stabile satellite un Paese conquistato militarmente nemmeno dieci anni fa.
Il parere di Larry Sabato
Non ci si può sottrarre al gioco del “chi ha vinto”. Joe Klein sul Times ha notato che Obama ha citato tre volte Israele come principale alleato americano, un fatto che ha spiazzato la rappresentazione di Romney come principale referente internazionale dello Stato ebraico. Questa potrebbe essere una chiave della vittoria ieri sera. Dà la vittoria (ma di misura) ad Obama anche Larry Sabato, sondaggista molto ascoltato a Washington, che ha notato un Romney troppo difensivo e non perfettamente a suo agio sulla materia internazionale.
La questione militare
Peserà sul bilancio finale, che si va delineando in questi giorni, anche l’impatto del forte commitment di Romney verso il complesso militare, ribadito anche ieri sera, quando il repubblicano ha criticato i tagli alla marina. Si tratta di un richiamo ideologico non colto da Obama, ma anche di un asset elettorale che in alcuni Stati-chiave può essere decisivo.