Il caso Sallusti è già entrato nella storia mondiale come un modello di malagiustizia non ammissibile neppure in paesi terzomondisti, totalitari e vendettistici. Il vizietto di condannare presunti diffamatori ad opera di intoccabili funzionari che pretendono, per sé e non per tutti, rispetto e onore, è uno scandalo che ha ulteriormente dequalificato l’Italia nella considerazione internazionale.
Sallusti non è l’unico ad aver subito un trattamento di malagiustizia. È, invece, il solo che, pur avendo tutte le ragioni e i diritti costituzionali dalla sua, ha rassegnato non dovute dimissioni e ha posto agli occhi del mondo una questione attorno alla quale legulei e parlamentari cincischiano attorno ma sfuggendo al nocciolo: come un incolpevole può difendersi da una legge da aborrire e che invece è ancora a fare testo di pratica giudiziaria in un paese presunto civile?
Diciamola tutta: Sallusti è stato vilipeso da una sentenza obliqua e settaria, che è lecito pensare provenga più da un risentimento di casta che da una interpretazione rigida di un codice Rocco che, nella specie, ottantadue anni orsono, fu inventato per colpire anche il più tiepido degli avversari dei reggicoda del regime fascista autoritario. Colpendo un giornalista bravo anche se militante e scomodo, si è finito non solo con l’applicare una norma che si presupponeva da tempo inapplicabile, ma col vilipendere, non il solo giornalista responsabile di “non potere non sapere” (motivazione ricorrente da noi in molti altri casi di giustizia ingiusta in cui si aggira la norma costituzionale sulla respon sabilità personale), ma l’Italia intera.
Se un comune cittadino, sia pure fattosi forte della sua posizione di alto funzionario dello Stato, si è sentito diffamato, anche moltissimi cittadini che costituiscono la comunità italiana possono sentirsi diffamati da un provvedimento abnorme che, nel mondo, ci presenta come un Paese inadempiente di regole minime di civiltà, non soltanto giuridica. E ciò apre questioni che ci vincolano ad obblighi verso la comunità mondiale che non possono essere valutati a mo’ di ripicche e di piccole vendette fra caste contrapposte.
Occorre immediatamente uscire da una condizione di giustizia tribale. Cominciando col depenalizzare, subito, non domani (che poi diventa mai) i cosiddetti “reati di opinione”, cioè il vilipendio, l’oltraggio al capo dello Stato o ad una cultura religiosa integralista e qualsiasi altra manifestazione di pensiero che possa urtare la suscettibilità di qualcuno. Così come non si possono continuare ad emettere giudizi civili molto pesanti pecuniariamente contro involontari “diffamatori” e, invece, non fare pagare alcunché a quei giudici che sbagliano ignorando le loro personali responsabilità civili per gli errori che possono commettere, scaricando sul contribuente il carico dei risarcimenti sanzionati da giudici che si coprono l’un l’altro.
Oltre tutto si pretendono onore e rispetto, non accorgendosi di adottare un lessico
tipico della mafia. E anche questo incide sulla progressiva dequalificazione della nostra giustizia, oltre che della nostra politica, nelle stime sempre meno benevoli delle civiltà d’ogni emisfero.