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Draghi: ecco le tre strade per ridurre il debito

Alesina (1988) ha sollevato la questione del rientro da un elevato debito. Non c’è una risposta semplice. In alcuni casi attraverso l’inflazione, in altri casi attraverso la crescita e gli avanzi primari, altre volte il debito è stato ripudiato. Negli anni Venti, in seguito alla Grande guerra, i governi europei erano fortemente indebitati e il servizio del debito costrinse i paesi alla difficile scelta tra inflazione, tassazione e ripudio del debito. La Germania e l’Austria sperimentarono un periodo di iperinflazione; risolsero indubbiamente i loro problemi ma generandone una serie di altri che cambiarono il corso della storia. Anche la Francia ridusse gran parte del proprio debito attraverso l’inflazione. Non fu così invece per la Gran Bretagna.
Il caso della Gran Bretagna colpisce per molte ragioni. Prima di tutto, il debito raggiunse livelli straordinari, prossimi al 300 percento del Pnl verso la fine degli anni Quaranta. In secondo luogo, non ci fu mai inadempienza tranne che a causa dell’inflazione. Un’osservazione immediata è che, confrontati con il caso della Gran Bretagna, rapporti di debito al 100 percento non sono in alcun modo eccessivi.
 
Viepiù, l’inflazione non fu certo la regola, fino al periodo successivo alla Seconda guerra mondiale. Infatti, negli anni Venti il rapporto debito/Pnl si ridusse pur in presenza di prezzi stabili o addirittura in discesa!
 
Forse la cosa che stupisce di più è che oggi il debito pubblico della Gran Bretagna si sta riducendo in senso assoluto, in parte grazie alle entrate dalle privatizzazioni. Dal momento che il debito viene ridotto, aumentano le risorse a disposizione, dando spazio ad eventuali miglioramenti nel sistema tributario. Il programma di riduzione del debito è così radicale che alcuni osservatori hanno iniziato a chiedersi che cosa succederà una volta che il debito sarà azzerato – una riduzione delle tasse o ulteriori programmi di spesa pubblica? Il caso della Gran Bretagna certamente contraddice l’affermazione secondo la quale i governi tendono, in ogni tempo e in ogni paese, a spendere ogni centesimo a disposizione.
 
Tradizionalmente, in finanza pubblica, veniva portata avanti la tesi secondo la quale ai paesi fosse consentito indebitarsi durante le guerre, ma che dovessero rientrare immediatamente dopo. Sicuramente c’erano delle opinioni a favore della riduzione del debito pubblico che oggi mancano del tutto. Nei casi di piena occupazione i deficit di bilancio hanno ostacolato la crescita3. Vale la pena in proposito citare James Tobin (1960) che nel suo saggio “Crescita attraverso la tassazione” scriveva: “L’aumento della tassazione è il prezzo della crescita. L’imposizione fiscale è necessaria, non solo per finanziare l’aumento della spesa pubblica, ma anche per finanziare, indirettamente, l’incremento degli investimenti privati. Un surplus del bilancio federale è una maniera attraverso la quale noi come nazione possiamo incrementare l’ammontare dei risparmi a disposizione degli investitori privati. Gli strumenti sono a portata di mano, per utilizzarli è necessario fare appello a un maggiore buonsenso, a una maggiore maturità, a maggiori capacità di leadership e a una maggiore fermezza di quanto dimostrato negli anni Cinquanta”.
 
Il modello attualmente adottato è quello del debt-drift – ovverosia, il finanziamento in deficit è giustificato a patto che non comporti un incremento del rapporto debito/Pnl, tranne che nei periodi di recessione. Questo è in forte contrasto con la filosofia in voga alla fine degli anni Sessanta quando erano universalmente preferite politiche di pareggio di bilancio. Il sorprendente cambio d’indirizzo in favore della presenza di deficit di bilancio deve essere avvenuto negli anni Sessanta quando l’introduzione della nozione di budget di piena occupazione ha legittimato il ricorso a deficit di bilancio. Negli anni Settanta nessun periodo è stato considerato appropriato per riportare i deficit sotto controllo, e prima dell’inizio degli anni Ottanta la crescita dei deficit di bilancio e dell’indebitamento pubblico iniziò a essere allarmante.
 
Non è ancora chiaro quando ritornerà il tempo della moderazione fiscale. E’ plausibile prevedere un ritorno a politiche di rientro del debito se l’Europa vivrà un boom negli anni Novanta e se permarranno alti tassi d’interesse reale causati da carenza di risparmio rispetto ai tassi di investimento, spinti da un’alta produttività del capitale. Gli Stati Uniti continuano sulla strada dei deficit di bilancio ma è vivo il dibattito sulla desiderabilità di tali disavanzi in presenza di piena occupazione. Certamente va detto che negli Usa i deficit di bilancio, e la conseguente minaccia di instabilità finanziaria, sono l’unica garanzia contro l’aumento della spesa pubblica. E fino a un certo punto si è dimostrata un’effettiva minaccia, essendo stati decurtati in maniera sostanziale i programmi di spesa. Tuttavia questo è un gioco a perdere. I disavanzi si traducono in un aumento del servizio del debito e ultimamente siamo di fronte a una situazione in cui la spesa pubblica totale è stabile ma il crescente aumento dei pagamenti per interessi sul debito richiede sempre maggiori riduzioni delle spese primarie.
 
Diversi articoli hanno affrontato il problema da un punto di vista storico. Possiamo provare a sottolineare le idee principali:
 
– la storia non sembra dare ragione a chi propone di risolvere il problema del debito pubblico in Europa occidentale attraverso la tassazione dei capitali. Solo in particolari circostanze, che richiedono misure straordinarie, i possessori dei titoli di stato accetterebbero una tassa sui capitali come uno strumento legittimo nell’ambito di una politica di riduzione del servizio del debito: solo in questo caso non verrebbe danneggiato l’accesso al mercato da parte dei governi. Barry Eichengreen, ripercorrendo l’esperienza di questo secolo, non individua nemmeno un esempio in cui i tentativi di tassare i capitali (in tempo di pace) non siano stati frustrati da una strenua resistenza dei gruppi interessati. Unica eccezione è l’esperienza giapponese che riuscì perché fu portata avanti durante il periodo dell’occupazione militare, quando i conflitti di distribuzione interna erano cessati e le conseguenze sulla reputazione dei governi futuri erano fuori questione.
 
– Storicamente non si sono mai verificate spontanee “corse al debito”. La provocatoria analisi di Gail Makinen e Thomas Woodward contrasta fortemente con la visione secondo la quale le crisi di finanziamento del debito manifesterebbero a causa di mancanza di fiducia da parte dei creditori, generalmente indotte da politiche fiscali inappropriate. Le tre crisi del finanziamento considerate, infatti, avvengono in paesi che presentavano situazioni d’avanzo o di quasi pareggio di bilancio. I due giungono alla conclusione che le principali cause delle crisi siano state erronee politiche di gestione del debito nelle quali i governi hanno continuato a pagare agli obbligazionisti un tasso d’interesse inferiore a quello di equilibrio.
 
– Prerogative di una serie di ristrutturazioni del debito pubblico portate avanti dal governo italiano nel periodo compreso tra il 1903 e il 1906 erano state le eccellenti tecniche di impiego, un’attenta diplomazia finanziaria e una tempistica perfetta in relazione ai mercati finanziari internazionali. Marcello de Cecco ne ripercorre l’esperienza e la confronta con altre meno fortunate che sono state poste in essere dal governo fascista negli anni successivi.
 
– Il debito pubblico degli Stati Uniti nel corso del diciannovesimo secolo fu ridotto, mal gestito e spesso ripudiato. Cary Brown ne racconta la storia evidenziando come fosse considerata una variabile poco importante, in un paese la cui attenzione principale era rivolta alle politiche commerciali e nel quale l’elevata imposizione fiscale e il modesto intervento dello Stato mantenevano basso il livello del deficit.
 

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