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I veri e i falsi Caymani nella disputa Bersani-Renzi

Le frasi sprezzanti e un pochino demagogiche del segretario del Partito Democratico Bersani in merito agli incontri di Renzi con la finanza milanese (“Io credo che qualcuno che ha base alle Cayman non si possa permettere di dare consigli”) forniscono uno spunto per una riflessione sulla concezione del mercato e del capitalismo da parte della politica italiana.
Esistono due concezioni di capitalismo nel mondo occidentale, quella anglosassone e quella dell’Europa continentale. La prima è basata sul concetto di public company in cui il ruolo del mercato è allocare le risorse nel modo più efficiente possibile indirizzando gli investimenti verso gli impieghi che garantiscono una differenza positiva tra il ritorno dell’investimento stesso ed il costo di approvvigionamento del capitale sul mercato.
 
La seconda invece è quella di una capitalismo con strutture proprietarie chiuse, regolato da una serie di centri di potere, in cui il ruolo del mercato è di garantire la conservazione e la stabilità del sistema consentendo il controllo dei gangli vitali dell’economia impiegando il minore capitale possibile e ricavando i ritorni dell’investimento non tanto dai flussi finanziari derivanti dallo stesso ma dai vantaggi connessi con il controllo dei centri di potere.
 
La prima concezione ha storicamente spaventato la politica italiana. Un sistema che alloca le risorse secondo una mera logica di massimizzazione del rendimento è, per sua natura, maggiormente propenso nei confronti di un’economia in cui la funzione dello Stato sia quella di arbitro e non di giocatore. È un sistema che ai meccanismi di cooptazione in cui la politica seleziona, direttamente o indirettamente, la classe dirigente dell’economia rendendola ad essa affine, affinché questa, a sua volta, alimenti e favorisca la continua concertazione tra politica, economia e parti sociali volta ad indirizzare lo sviluppo economico del Paese, preferisce la selezione meritocratica sia delle classi dirigenti in economia che, come naturale conseguenza, in politica. È un sistema che incentiva il cambiamento, non la conservazione.
 
Il sistema economico che è da sempre al centro dell’agenda dei nostri politici è quello che basa la strategia economica sulla preservazione a tutti costi della grande impresa (di Stato o controllata dai centri di potere privati affini alla politica, poco cambia) che, a sua volta, crea legittimazione per i sindacati come soggetti di finta intermediazione (ma in realtà di conservazione dello status quo) tra impresa e lavoratore. È il sistema che è, per sua natura, ostile ad ogni concetto di liberalizzazione ed allo stesso concetto di imprenditorialità privata in quanto portatore di nuovi soggetti sul mercato potenzialmente distruttivi dell’equilibrio raggiunto e che si oppone alla creazione di un mercato del capitale di rischio (la capitalizzazione della Borsa Italiana è pari al 21% del PIL, la percentuale più bassa d’Europa) preferendo che i risparmi vengano utilizzati per finanziare direttamente o indirettamente (tramite gli impieghi delle banche che invece di finanziare l’impresa comprano titoli di Stato) il debito pubblico generato sia dagli sprechi di cui la politica si alimenta sia dai sussidi alle imprese con cui si mantengono in vita imprese inefficienti ma strumentali all’equilibrio complessivo dell’organismo.
 
Certo un sistema di questo tipo non incentiva né l’innovazione né tantomeno la crescita di chi, pur in possesso di capacità e competenze, è esterno ai gangli vitali del potere. Ma poco male, meglio per l’equilibrio del sistema che chi è ricco di competenze ma non di connessioni politiche vada all’estero piuttosto che diventare un elemento di instabilità all’interno del sistema stesso.
Si capisce l’indignazione di Bersani quando Renzi incontra quella parte di finanza che ha osato sfidare il capitalismo alla Bernheim, che è poi il capitalismo che ha fatto si che la redditività del capitale proprio delle banche italiane sia da sempre la più bassa d’Europa (era pari al -2,2% contro un media europea dell’11,2% nel 2007, al 4,3% rispetto al 10,3% nel 2010 ed allo 0,3% nel 2011 rispetto all’1,9% in Europa ed al 7,5% in Usa) e che, come conseguenza, i mercati, non solo dalle Cayman ma anche da Londra e New York o Milano, penalizzino le stesse in termini di rapporto tra valorizzazione del mercato e book value rispetto ai competitor europei e nord americani, limitandone la capacità di raccogliere risorse.
 
Ma ai politici alla Bersani, che è poi la gran parte dei politici italiani a destra o sinistra tutto questo non interessa, come non interessa che il sistema continui a perdere produttività e che alle imprese italiane che cercano finanziamenti si continui a rispondere picche mentre il titolo Mps viene declassato a livello spazzatura anche a grazie alla geniale operazione Antonveneta, che, ricordiamo, fu salutata dai vertici del Pd come operazione di grande rilevanza strategica che avrebbe dato vita al terzo polo bancario in Italia.
 
Il Paese non ha bisogno delle arroganti sentenze di Bersani & Co. su chi è degno o meno di dare consigli sull’economia italiana, ma di una leadership che esca dai salotti buoni e proponga riforme reali per l’uscita dalla stagnazione degli ultimi 40 anni. Che certo non può provenire da chi è stato artefice e responsabile del disastro che ogni italiano sta pagando di tasca propria.

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