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Il male oscuro dell’unanimismo

L’unanimismo non è il miglior modo di votare in democrazia. È un apparente segno di larghe intese; in verità cela le divisioni più aspre e vili. Vi si ricorre quando un organismo politico è zeppo di contraddizioni e povero di proposte risanatrici di un qualche male oscuro che mini dall’interno i coacervi politici, gli ibridi che si formano sul compromesso esasperato e si sviluppano sulle veteroburocrazie sulle quali si reggono le formazioni idealmente morte ma ricorrono ad ogni inganno per tentare di mascherare le loro facce di maschere viventi.
 
L’unanimismo è l’arma dei regimi autoritari e totalitari, che vedono un pericolo mortale nel più piccolo e periferico dei dissensi; che, invece, altro non sono che faville fatue che paiono fuochi distruttori. I comportamenti acrobatici, purtroppo non solo italiani, delle formazioni politiche costituite da baraonde di desideri, sono specchi fedeli di una società sempre più disarticolata e vagante verso rabbiose incertezze, tutte presumenti di possedere l’esclusiva del bene e del meglio, ognuna invero concorrente ad aggravare una crescita non risolvibile con bacchette magiche.
 
Tra poco andremo a votare, tutti nella convinzione di poter ribaltare una condizione politica disgustosa e repellente. Ogni giorno nasce un qualche partitello prodotto da uomini che riducono ogni cosa a sfruttamento di interessi disdicevoli. Malgrado l’imperante unanimismo, le disaggregazioni aumentano, mentre le poche convergenze si dilaniano fra loro. È diventato talmente alto il catalogo dei pretendenti a Montecitorio, a Palazzo Madama, al Colle (magari col proposito di mutarne il sesso) che non c’è più alcun freno alle ambizioni le più scombiccherate e meschine.
 
Pochi si accorgono che, da qualche tempo, l’Italia ha perso la propria identità di Paese libero e sovrano. Ma molti applaudono a combinazioni non determinate da combattute e leali competizioni elettorali, quasi avessero trovato un modo moderno quanto sobrio per rinunciare a pensare con la propria testa; e con l’accodarsi, passivamente, in una disperata impresa autoconservativa, ovvero al precetto indimostrato secondo cui non c’è politico più bravo e decisorio di un tecnico autoreferenziato, nei fatti pasticcione e inconcludente. Però tutti si beano di potere insinuarsi nel conformismo dell’unanimismo, ritenendo che ciò rappresenti il massimo, anzi l’ottimo della democrazia.
 
Quando qualcuno, non per caso, invita a considerare che i potenziali astenuti nelle prossime elezioni hanno raggiunto la metà del corpo elettorale, c’è sempre qualche furbetto a contrapporgli che, chi non vota, si autoesclude dal circuito democratico. Ma se il cosiddetto circuito democratico s’imballa sull’unanimismo, dov’è più la pluralità democratica e a cosa si riduce la sovranità, se non a subire ciò che si stabilisce altrove, al di là di perimetri democratici reali?

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