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La crisi europea offre nuova linfa all’imperialismo cinese

La crisi economica dell’Eurozona ha avuto come effetto collaterale la progressiva marginalizzazione dell’Unione Europea dalla scena geopolitica globale. Negli ultimi anni, mentre i leader continentali dibattevano su tempi e modi del salvataggio della Grecia prima e degli altri Paesi periferici successivamente, facendo condizionare le proprie agende più da problematiche di natura elettorale nazionali o locali (non vanno mai dimenticate le letali esitazioni di Angela Merkel in merito al primo pacchetto di aiuti alla Grecia condizionate dal timore dell’impatto del trasferimento di risorse teutoniche ad un paese mediterraneo nell’elettorato del Baden-Wuerttemberg in occasione delle elezioni amministrative del Marzo 2011), l’asse decisionale del pianeta si è decisamente spostato verso Est.
 
Ne è testimonianza la focalizzazione della politica estera dell’Amministrazione Obama che, dall’Eurozona (per la quale sono state più che altro spese generiche affermazioni di preoccupazione sugli impatti della crisi sull’economia interna statunitense) si è spostata, oltre che ovviamente sul Medio Oriente, sull’area asiatica.
Peraltro è dall’Asia e, più in particolare dalla Cina, che si è avviata una dinamica che, utlizzando le vecchie categorie interpretative della politica europea in epoca colonialista, potremmo definire imperialismo economico. Da ormai parecchi anni il governo cinese ha deciso di accompagnare lo sviluppo economico interno (nato all’insegna del pragmatismo non ideologizzato di Deng e alla relativa indifferenza sul colore del gatto a patto che prenda il topo) con un’azione di politica estera volta a assicurarsi le risorse necessarie allo sviluppo della potenza economica e politica del paese tramite una selettiva serie di investimenti.
 
La prima fase di questa dinamica ha visto un fortissimo incremento della presenza economica cinese in Africa. A partire dal 2010 la Repubblica Popolare Cinese, per il tramite delle imprese di Stato, ha investito in 27 paesi africani un totale di 101 miliardi di Dollari (pari al 5% del PIL di tutto il Continente) in una serie di progetti che vanno dalle infrastrutture (28% degli investimenti), al settore minerario (25%), agli idrocarburi (19%). L’iperattività cinese in Africa, che ha sollevato più di una perplessità in Hillary Clinton, è volta sia a garantirsi l’accesso diretto alle materie prime al fine di mantenere la stabilità dei prezzi sul mercato domestico (che è obiettivo primario della politica economica del governo) anche in un probabile scenario di rialzo a lungo termine dei prezzi delle stesse che ad assicurare un posizionamento politico nell’area alla luce della relativa valenza sugli equilibri mondiali che è destinata ad aumentare nel prossimo futuro.
 
La seconda fase ha avuto avvio più recentemente ed è stata caratterizzata da un progressivo ma costante incremento degli investimenti di M&A in Occidente volto, sempre sotto la guida del governo cinese e utilizzando sia trasferimenti dal governo alle imprese che capitali raccolti sul mercato mobiliare che tramite il private equity locale (di cui il fondo Hony Capital è l’esempio più noto) all’acquisto di marchi, tecnologie e competenze strumentali alla crescita del sistema economico cinese. Solo per quanto riguarda l’Italia, numerose aziende sono state oggetto d’acquisizione da parte di controparti cinese tra cui, per esempio, Ferretti, CIFA e De Tomaso, o di interessamento da parte di investitori cinesi.
 
Queste due dinamiche, unite con la quota crescente del debito pubblico europeo e statunitense in mani cinesi e alla crescente influenza cinese in America Latina (dove la Cina è il terzo partner commerciale), tradizionalmente un’area del pianeta ad egemonia statunitense, fanno si che la rilevanza della Repubblica Popolare Cinese sullo scacchiere globale è in costante ascesa.
È in corso un riposizionamento dei rapporti di forza tra superpotenze e nell’ambito di questa dinamica spicca l’assenza dell’Europa (accanto al ridimensionamento del ruolo giapponese). Le divisioni interne al continente sulla crisi dei debiti sovrani non fanno altro che indebolire la politica estera degli Stati membri che, peraltro, per sperare di essere minimamente efficace non puó che essere unitaria e coordinata. Anche in questo senso è necessario muoversi rapidamente verso una più marcata unificazione politica a livello continentale. La posta in gioco è l’irrilevanza di quella che un tempo era l’area che determinava i destini del pianeta.
 
Massimo Brambilla è managing director di Fredericks Michael & Co

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