In molti dicono che questa trattativa sulla produttività non bisognava nemmeno iniziarla. Perché troppo difficile, perché i risultati non saranno mai all’altezza dello stress, perché il deposito di rancori e inimicizie che questo difficile confronto si porta appresso rischia di trascinarsi a lungo. Personalmente non lo crediamo. Lo spread di produttività con la Germania e gli altri paesi nostri concorrenti, anche solo in Europa, è molto alto e le aziende ne subiscono un danno molto forte in termini di competitività. Un intervento è necessario e Mario Monti ha fatto bene a chiederlo alle parti sociali. Se effettivamente di crescita di produttività si tratta. Il dubbio, da come stanno procedendo le trattative, o non stanno procedendo, è che gli obiettivi siano altri, allora il discorso cambia radicalmente.
Al momento tutto sembra fermo o quasi. Confindustria e sindacati hanno trovato un accordo la settimana passata su un testo che non cambiava forse in profondità tutto il sistema di contrattazione, ma portava novità sostanziali da non sottovalutare. Questo accordo non è piaciuto alle altre parti datoriali, ma sostanzialmente non è piaciuto al governo. Dopo un incontro con il ministro dello Sviluppo anche coloro che avevano condiviso i principi di quella preintesa sono tornati sui loro passi rimettendo tutto o quasi tutto in discussione.
Tutti gli sforzi adesso puntano a individuare un accordo tra le organizzazioni imprenditoriali, da presentare poi al sindacato per un possibile accordo. Impresa difficilissima, perché la trattativa c’è già stata anche sui temi che adesso si vorrebbero rimettere in discussione, e quello che non è stato accettato in prima istanza è difficile che lo sia in seconda istanza.
Il fatto che una trattativa sia difficile non esime naturalmente dall’opportunità di provarci. E’ così che nascono gli accordi, specie quelli più avanzati. Ma il pericolo di un fallimento sembra abbastanza reale, per cui forse sarebbe meglio procedere in maniera differente. Nel caso partendo dal punto fermo dell’accordo raggiunto tra Confindustria e sindacati.
Gettare tutto nella spazzatura sembrerebbe un vero spreco in un’epoca in cui gli accordi interconfederali unitari, senza defezioni, sono mosche bianche. Forse l’esempio da seguire è quello del 2009, quando si trovò un accordo generale su alcuni principi della contrattazione e poi ciascun comparto si negoziò il proprio accordo sulle sue specificità. Tanto più l’esempio è valido considerando che questa volta firmerebbero tutti i sindacati. E’ comprensibile che alcune clausole dell’accordo Confindustria non vadano bene al commercio, o all’artigianato, o che la cooperazione abbia bisogno di cose non previste o non interessanti per le imprese industriali. Per questo meglio una serie di accordi dove le parti, ciascuna nel suo settore, risolvano al meglio i propri rapporti.
Se poi questo accordo o questi accordi siamo o meno sufficienti a convincere il governo a dare luogo agli interventi di defiscalizzazione offerti, meglio. Ma se il governo ha altri obiettivi, se non si accontenta di quanto le parti sono riuscite a fare, comunque queste avrebbero portato a casa la soluzione di alcune loro esigenze, comunque un piccolo o grande passo sulla via della produttività sarebbe stato compiuto. In fin dei conti è questo che al paese serve e il miliardo e sei di euro che il governo aveva detto di voler caricare su questa trattativa era un incentivo, del quale si può anche fare a meno. Vorrà dire, se il governo non dovesse accedere, che le buone pratiche individuate saranno meno numerose e l’effetto meno forte. Ce ne faremo tutti una ragione.