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Le vere idee di Hillary su Europa, Libia e Maghreb

Il Center for strategic and international studies (Csis) di Washington è una fucina di idee e concetti per la politica estera americana. Lo scorso 12 ottobre ha ospitato una conferenza sulla transizione in Maghreb, moderata da Zigbiew Brzezinski, consigliere per la sicurezza ai tempi di Jimmy Carter, che al Csis riveste il ruolo di responsabile del programma mediorientale. Ce n’è abbastanza per drizzare tutte e due le orecchie, sia perché Brzezinski è uno dei più originali strateghi Usa, sostenitore del ruolo euroasiatico americano, sia perché il Maghreb di cui si parla è proprio l’area in cui doveva fiorire l’Unione per il mediterraneo (Upm) patrocinata da Francia e Ue (2008), e dove invece due anni dopo è cominciata la rivolta che ha rimesso in gioco tutti i vecchi equilibri del fronte sud euroatlantico.
 
Insomma, cornice e temi dicono chiaramente che gli Stati Uniti dei “dem” non sono affatto da meno, rispetto ai repubblicani, nel sostenere con ogni mezzo politico-militare la causa degli interessi globali americani, per di più in un’area in cui questi non erano presenti, o comunque rappresentati politicamente, fino a qualche anno fa.
 
Il segretario di Stato, Hillary Clinton, nel suo intervento ha fatto il punto a un anno dalla fine dell’intervento in Libia. Ha detto che anche se “non spetta agli Usa gestire la transizione alla democrazia”, gli Stati Uniti sono interessati direttamente al suo esito, che cercheranno di influenzare con un’ampia gamma di strumenti politico-diplomatici (istruzione e formazione politica, collegamento con la società civile, assistenza alle forze di polizia, consulenza giuridico-istituzionale, ecc). La fase attuale richiede “più il compromesso che il confronto, più la politica che i movimenti di protesta”.
 
È il momento delicato in cui la rivoluzione si ferma e istituzionalizza, una fase che la Clinton vede insidiata dalle “riserve di radicalismo accumulate in decenni di autocrazie”. Colpi di coda ci sono stati tanto in Libia quanto in Tunisia, ma sono stati respinti dalla corrente principale della popolazione: basti vedere, ha detto il segretario di Stato, la reazione partecipe della popolazione di Bengasi all’assassinio del diplomatico Usa, Chris Stevens. Nel suo discorso ha citato più volte l’Aqmi (Al-Qaeda nel Maghreb islamico) e il pericolo proveniente dal sud, dal Sahel destabilizzato e in preda all’offensiva islamista. Qui l’Algeria (principale potenza energetica e militare dell’area e partner fondamentale dell’Europa sul gas) appare in una luce ben diversa dagli altri nuovi alleati Usa (Tunisia, Libia, Marocco, in parte Egitto), e sebbene cooperi nella sicurezza appare “ancora molto indietro sulla strada della difesa dei diritti universali”. Se consideriamo che Algeri gioca una partita fondamentale nella lotta al terrorismo e in qualsiasi sistemazione degli equilibri sub-sahariani, si tratta di un’affermazione non da poco.
 
Il capo di Foggy Bottom ha poi citato una serie di accordi, tra cui il primo dialogo strategico Marocco-Usa e la prima lettera di intenti Usa-Lega Araba. Si tratta di una novità davvero impensabile fino a qualche anno fa, ma che rientra nelle linee di sviluppo di una potenza dinamica e pragmatica, in grado, anche per il carattere aperto e competitivo del dibattito di idee, di liberarsi di vecchie preclusioni e limiti posti alla propria azione. Il segretario di Stato ha citato per esempio un’idea dello stesso Csis, ovvero che la presenza americana dovrebbe stimolare un aumento del commercio interregionale, in una delle aree “meno integrate del mondo” – un riferimento implicito al fallimento di aggancio europeo tramite l’Unione per il Mediterraneo.
 
Il Mediterraneo centro-occidentale non è mai stato una priorità del Medio Oriente per Washington, da sempre più attenta a Palestina e Golfo Persico. Una corrente minoritaria del pensiero strategico americano potrebbe diventare una formula dominante. Per questo, a chi di fronte ai primi contraccolpi della transizione chiederà se “ne valeva le pena” (un riferimento ad alcune correnti più tradizionaliste e restie a impegnarsi in quest’area), Hillary Clinton dà la stessa risposta di un anno e mezzo fa: certamente sì.


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