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Mercato energetico, torniamo ai fondamentali

Il mercato petrolifero mondiale è un unico grande stagno, diceva Morris Adelman, forse il maggior studioso dell’economia del petrolio. Intendeva che non si può pensare di segmentarlo: se il livello dell’acqua (i prezzi) cresce, o cala, su una sponda, cresce (o cala) da tutti i lati. Ciò determina una serie di conseguenze rilevanti per il modo in cui sono organizzati i mercati e per la natura degli attori che li popolano.
 
L’aspetto fondamentale, però, è che se il mercato è globale, globali devono essere anche gli operatori: non importa la loro nazionalità, perché il successo (o l’insuccesso) delle loro strategie deriva unicamente dalla capacità di ciascuno di sfruttare in modo efficace le conoscenze di cui è in possesso. Naturalmente, esistono molte distorsioni: vari Paesi, inclusi alcuni tra i maggiori detentori di risorse petrolifere, sono chiusi o relativamente chiusi, per cui assegnano un ruolo forse sovradimensionato alle relative compagnie di Stato. Ma anche queste devono in ultima analisi confrontarsi con gli andamenti della domanda, dell’offerta e dei prezzi che si registrano a livello mondiale.
 
Se tutto questo è vero, allora ne seguono due rilevanti indicazioni di policy. La prima è che non c’è differenza tra la produzione nazionale e le importazioni: ciò che conta, per un Paese, è poter disporre di energia al prezzo più contenuto possibile e in modo affidabile. Nel caso del petrolio, il prezzo interno è per definizione uguale a quello internazionale (al netto di eventuali sussidi), e la sicurezza dell’approvvigionamento è data dall’accesso ai mercati. La scelta se sviluppare o no le risorse potenzialmente esistenti nel sottosuolo di una nazione, dunque, non ha a che fare con gli interessi dei consumatori (quello che, con espressione imprecisa e ambigua, viene definita “sicurezza energetica”), ma riguarda soprattutto le opportunità del Paese stesso. Vale a dire: è efficiente oppure no allocare fattori produttivi (capitale e lavoro) alla ricerca ed estrazione d’idrocarburi piuttosto che, poniamo, al turismo o alla produzione di automobili?
 
Non può esistere una risposta in astratto: la risposta dipende da mille variabili, tra cui la dinamica attesa dei prezzi, il grado di concorrenza esistente sul mercato e la tecnologia. Il modo migliore di conoscere la soluzione al quesito, insomma, non è decidere “dall’alto” se sfruttare le riserve esistenti, ma delegare tale responsabilità a una scelta “dal basso”. Ossia, definire le regole – ambientali, lavoristiche, ecc. – sotto cui è possibile mettere in produzione i giacimenti, e lasciare che siano i privati a valutare se e quanto è opportuno investire in questo anziché in altre attività, e in questo piuttosto che in altri Paesi.
 
Nel caso del gas le cose sono diverse e più complesse, perché per ragioni legate alla tecnologia di trasporto (prevalentemente il tubo) i mercati hanno dimensione perlopiù regionale, ma non così diverse e così tanto complesse da cambiare strutturalmente il perimetro del problema: anche in questo caso, per il consumatore la provenienza del gas è irrilevante, e anche in questo caso lo sfruttamento delle risorse nazionali riguarda più il costo opportunità dei fattori produttivi richiesti che un presunto interesse generale del Paese. La seconda implicazione del fatto che il mercato petrolifero è “un unico grande stagno” – e, per stare alla metafora, i mercati del gas sono alcuni stagni più piccoli collegati tra di loro da canali di portata contenuta – è che non solo è di nulla importanza (per il consumatore) la provenienza del greggio (o del metano).
 
È priva di effetti anche la carta d’identità del produttore: che nella nostra automobile entri gasolio da greggio mediorientale estratto dalla compagnia nazionale, o kazako prodotto da una grande impresa italiana, o africano targato multinazionale americana, non fa differenza. Quindi, la politica energetica di un Paese non dovrebbe assumere come obiettivo quello di proteggere o far crescere un “campione nazionale” in campo petrolifero. Infatti, se ciò non produce benefici per il consumatore, può sortire costi per tutti gli altri.
 
Per esempio, una compagnia inefficiente può assorbire proventi fiscali per sostenersi; oppure un’impresa può fondare il suo modello di business sulla sistematica estrazione di una rendita monopolistica nei settori in cui opera (in particolare il gas); o, ancora, può scaricare sul proprio bilancio perdite inaccettabili per altri, distorcendo il funzionamento del mercato (per esempio con campagne di maxisconti) che, se da un lato offrono temporaneo sollievo al consumatore, dall’altro rischiano di pregiudicare la corretta applicazione delle regole concorrenziali. Alla luce di tutto questo, è importante evidenziare che la politica energetica non dovrebbe impicciarsi dell’organizzazione dei mercati o di definire numero e identità degli operatori o spingerli a investire in questo o quel segmento di business.
 
Obiettivo della politica energetica dovrebbe essere quello di garantire che i consumatori possano accedere all’energia – non a singole fonti, ma all’energia di cui hanno bisogno – in condizioni di ragionevole sicurezza e a prezzi più bassi possibili (cioè a prezzi “di mercato”). Infatti nessuno può prevedere il futuro, e mai una simile verità dovrebbe essere ovvia quanto lo è oggi: con la domanda a picco causa recessione e il boom di offerta legato alle risorse non convenzionali. Tuttavia, nell’ambito di un processo decisionale decentralizzato (cioè il mercato e la competizione) le responsabilità sono allocate in modo preciso e soprattutto ciascuno coglie onori e oneri delle proprie scelte.
 
Al contrario in un meccanismo centralizzato (la “politica”), i risultati della decisione sono del tutto ortogonali all’interesse del decisore che, anzi, talvolta è spinto a compiere scelte oggettivamente dannose ma soggettivamente utili (per esempio salvare un’impresa decotta, creando un costo sociale, in cambio dei voti di chi vi trae un reddito). L’Italia ha già pagato molti e grandi costi per la volontà di mantenere monopolisti nazionali nel campo dell’energia e, parallelamente, per il costante accoglimento delle istanze di chi era “contro” (si pensi all’evidente sottosfruttamento di riserve petrolifere e di gas economicamente convenienti, per ragioni di opposizioni “politiche”). Forse è arrivato il momento di cambiare strada.
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