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Perché la guerra in Siria fa paura. Anche agli Usa

Nell’ultimo dibattito televisivo tra Obama e Romney è stato chiaro l’accordo di fondo sul non-intervento diretto in Siria. Naturalmente ci sono moltissimi strumenti per influire sugli eventi, per esempio armando frazioni filoamericane o filooccidentali, ed è questa ipotesi su cui convergono i due candidati. Il primo problema, però, è individuare quali siano queste fazioni e quanto siano davvero fidate, viste le giravolte della politica mediorientale. Recentemente l’intelligence Usa ha rivisto al ribasso le cifre della rivolta siriana, dai 70mila combattenti ad appena 30mila, di cui un terzo alqaidisti. Questo può essere uno dei motivi della prudenza mostrata dagli Stati Uniti, ben maggiore, in questa fase, di quella mostrata dalla Francia.
 
Il secondo problema è che gli Stati Uniti non hanno precedenti positivi – o meglio, che tendono ad essere ipercritici sui loro precedenti anche di relativo successo: questo può essere un retaggio di una nazione che è salita alla ribalta mondiale affermando l’opposizione ai giochi segreti delle diplomazie europee e ai metodi colonialisti del “divide et impera”, oltre che il riflesso di un’aspirazione alla chiarezza che spesso fa a pugni con le esigenze del realismo. Per esempio, non piace l’idea di usare il “modello Afghanistan” degli anni ’80, con la Cia e i servizi segreti pakistani nelle retrovie dei mujhaedeen.
 
Quell’operazione coperta portò alla sconfitta dell’Armata Rossa e consentì agli interessi americani di installarsi in Asia centrale, ovvero nell’heartland geopolitico globale. Eppure, questo è considerato terreno scivoloso, perché da Kabul sarebbero partiti nel 2001 gli ordini operativi per l’attacco alle Twin Towers. La stessa valutazione pessimistica viene fatta oggi su Benghasi, centro della rivolta libica del 2011 e poi di violenze antiamericane lo scorso settembre. Si tratta di analogie che presentano non poche forzature, e che comunque pesano nella valutazione di un possibile intervento in Siria. Tanto più che il Paese è un mosaico etnico collegato a doppio filo al Libano da una parte e alla Turchia (per via della questione curda) dall’altra, cui si aggiunge secondo alcuni un’alleanza di fatto con Iran e Palestina (Hamas).
 
E poi c’è la questione delle armi chimiche. Lo scorso settembre, l’ex generale Adnan Sillu in un’intervista concessa in Turchia al britannico Times ha affermato che il regime starebbe valutando l’uso di armi chimiche contro l’opposizione, evocando anche lo spettro di un “muoia Sansone e tutti i filistei” per cui Damasco sarebbe pronto ad affidare parte del suo arsenale ad Hezbollah in Libano meridionale. Si tratta di un argomento a doppio taglio, perché può da una parte accelerare un intervento preventivo, dall´altro acuire il senso del realismo e la prudenza militare.
 
Lo scorso 28 settembre il segretario alla difesa Leon Panetta ha affermato che l´intelligence Usa ha perso di vista alcune di queste armi, che sarebbero dunque in movimento sul suolo siriano. La Siria ha una vasta rete di basi segrete, per cui secondo il Pentagono ci vorrebbero ben 75mila soldati per mettere in sicurezza l´arsenale chimico.
 
In un dibattito alla Federation of american scientists, Doug Bandow del Cato institute e Luke D.Coffey dell´Heritage foundation si sono confrontati su questa vicenda. Per Bandow, il problema deve essere gestito direttamente dagli alleati regionali degli Usa, in particolare Israele e Turchia, mentre Washington deve astenersi da un intervento costoso e dagli esiti incertissimi. Coffey invece traccia una politica su tre livelli. In prima battuta, sarebbe utile trovare un consenso internazionale con Cina e Russia sul rischio che le armi chimiche finiscano nelle mani dei fondamentalisti islamici; Turchia e Lega Araba dovrebbero mandare un segnale ad Assad: se userà davvero il suo arsenale, sarebbe l´inizio di un confronto regionale, in cui gli Usa dovrebbero inviare specialisti di guerra chimico-batteriologica al seguito di truppe arabe. In seconda linea, Washington deve cercare di appoggiarsi alle intelligence di Francia, Gran Bretagna ed Israele per monitorare la situazione e prepararsi ad un intervento di commandos nel caso che emergano prove di un contrabbando fuori dal Paese. Infine, se i depositi di armi chimiche dovessero cadere in mano ai ribelli, bisogna prepararsi a mandare esperti e tecnici nell´area e nei Paesi confinanti, anche se, nota Coffey, si sarebbe dovuto cominciare a farlo già mesi fa.
 
Non sorprende che due esperti di sicurezza militare Usa parlino del rovesciamento di Assad come del caso più problematico in relazione alla sicurezza dell´arsenale di distruzione di massa. Con le debite proporzioni, è lo stesso dilemma irrisolto del Pakistan. Distinguo, polemiche e velate minacce ad Islamabad ci sono state, ma sono rientrate a ridosso dell´operazione che ha portato all´uccisione di Osama Bin Laden nel maggio 2011. Nei fatti, in Pakistan gli Stati Uniti sono più lealisti e filogovernativi che “trasformativi”, per timore che le armi nucleari finiscano nelle mani sbagliate.
 
 
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