C’è un personaggio, eroe negativo del famosissimo film di Stanley Kubrick Il dottor Stranamore, ovvero come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba, che i cinefili farebbero bene a ricordare per capire questi strani giorni. È il generale Ripper, ossessionato dall’incubo dei comunisti (siamo nel 1964, d’altra parte) e dal loro programma di intaccare i “fluidi vitali” della nazione americana. E non in senso figurato, ma proprio disperdendo sostanze tossiche nella rete idrica, mescolando prodotti chimici ai gelati e avvelenando la catena alimentare. Ingenuità e ossessioni a parte, Ripper descrive qualcosa che spesso si dimentica – se Stranamore è l’anima tecnocratica, indifferente al costo umano del “progresso militare” (un bell’ossimoro!), Ripper è quella nazionalista e imperiale americana, orgogliosamente ritratta nell’icona dell’aquila, pronta a difendere con le unghie e con i denti le fonti culturali della propria egemonia. I due entrano in singolare corto circuito, pur non conoscendosi (nel film Ripper si suicida prima che entri in scena il dottore ex-nazista interpretato da un indimenticabile Peter Sellers).
Un corto circuito simile sembra prendere corpo nel momento in cui il segretario alla Difesa, Leon Panetta, evoca oggi immagini terrificanti. Iran, Cina o altri gruppi militanti “potrebbero far deragliare treni passeggeri, o ancor peggio treni carichi di sostanze chimiche letali, contaminare condotture acquifere nelle grandi città e disattivare la rete elettrica in numerose aeree del Paese.” È questo, secondo Panetta, lo scenario della “prossima Pearl Harbour”, una figura tipologica ricorrente nel build-up e nei salti tecnologici e strategici della capacità militare americana. In quanto tale, il discorso va considerato rivolto alla comunità tecnico-scientifica che ruota attorno al Pentagono, un complesso da tempo in allarme per i tagli alla difesa. Il dipartimento della Difesa d’altra parte investe ogni anno 3 miliardi di dollari per la sicurezza, per formare i “cyber-warriors” che devono sostenere la lotta contro attacchi continui alle infrastrutture critiche del Paese. È chiaro che non intende recedere da questo livello di impegno. L’intervento è indicativo del personaggio, portato per ruolo oltre che per stile personale a far valere tutto il suo peso nella dialettica non sempre facile con il Congresso, cui spetta l’ultima parola sulle norme di cybersecurity, e che deve bilanciare difesa della privacy e dei diritti individuali con l’emergenza che sembra delinearsi.
Panetta nel suo discorso ha citato gli attacchi subiti dall’Aramco, la compagnia saudita-americana che ha portato alla distruzione di 30mila computer e quelli che hanno riguardato la compagnia RasGas del Qatar. Si tratterebbe di una vera e propria escalation, con una chiara connotazione geopolitica anti-sunnita: Qatar e Arabia Saudita sono i protagonisti politici, mediatici e militari della recente fase di riassestamento degli equilibri mediorientali che in ultima istanza ha favorito la posizione Usa. E dunque, viste le capacità tecnologiche dimostrate dall’Iran, sembrerebbe indicare nell’Iran il responsabile – con l’appoggio di Cina e Russia.
Blame Iran, allora? Se il “senso di vulnerabilità” degli Stati Uniti si auto-alimenta, fino a rappresentarsi una situazione “pre-11 settembre” è anche perché l’Europa è afona proprio rispetto alle fonti di questa vulnerabilità, che sia vera, presunta o anche solo accentuata per fini di politica interna (che è forse la tesi più realistica). L’Europa deve rafforzarsi se non vuole che questi fantasmi diventino una realtà di guerra distruttiva con una nuova polarizzazione, questa volta non tra Islam e Occidente ma tra Islam sunnita e sciita. È lo stesso ex-segretario alla Difesa americano ad averlo ricordato agli alleati d’Oltreoceano, giugno 2011: senza una “forte leadership politica”, l’Europa rischia “l’irrilevanza militare”.
Tradotto anche in termini politici, deve sviluppare una sua linea autonoma sulle crisi regionali se non vuole che gli equilibri alla sua periferia siano sconvolti da potenze esterne, su cui ha poca capacità d’influenza. Una di queste potenze esterne è anche l’America di Obama e Panetta, che gli esperti nostrani vorrebbero a tutti i costi classificare tra le “colombe” contro i “falchi” repubblicani, come in passato hanno fatto per Clinton ignorando mille particolari non proprio irrilevanti, come il fatto che la corrente di Huntington (che più che neo-conservatrice è neo-liberalinternazionalista) si sia sviluppata in piena era clintoniana.
Falchi e colombe, indifferenti agli ornitologi, si scambiano troppo spesso il piumaggio nel cielo alto dell’egemonia tecnologica Usa: in fondo tutti e due aspirano, legittimamente, ad essere aquile reali.