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Veltroni se ne va (forse). Perché esserne contenti!

Dentro la nidiata dei giovani del partito comunista italiano, Walter Veltroni ha sempre rappresentato un caso particolare. Romanziere e cinefilo, il dirigente del fu Pci ha sempre vissuto a disagio dentro gli schemi gramsciani e post-togliattiani. Più che interessato alla via per l’egemonia, è sembrato più intrigato dalla scorciatoia per il potere. E’ stato un grigio ministro per i Beni culturali e un sindaco di Roma non ricordato a sufficienza per il buco finanziario che ha regalato in eredità ai cittadini. Di cose discutibili, Walter ne ha dette, scritte e fatte tante. La scelta politica più controversa resta però una e una sola: il Pd. Il ragazzo che da sempre voleva fare l’americano, è riuscito nel 2008 a realizzare il suo sogno (un incubo per tanti altri): smontare l’identità progressista dell’ex Pci, poi Pds e infine Ds per varare una formazione sganciata dalla tradizione della cultura politica europea e collegata – solo idealmente – a quella americana. Era l’ambizione di offrire una risposta berlusconiana a Berlusconi. Voleva essere il prologo della Terza repubblica bipartitica e maggioritaria. E’ stata l’assicurazione per altri anni di malgoverno della destra ed è stata la causa dei problemi irrisolti della sinistra italiana, cui Pier Luigi Bersani sta offrendo nuovi pessimi spunti di confusione con il giochino delle alleanze anti-riformiste con Nichi Vendola e forse persino con Antonio Di Pietro (quest’ultima fu un’altra delle geniali intuizioni di Veltroni nel 2008).
 
Insomma, se Veltroni fa un vero passo indietro (e non solo un’uscita da Monte Citorio), sarà una bella novità e comunque una vittoria per Matteo Renzi. Resta comunque da sciogliere il dilemma del Pd. Che cavolo ci si fa con un partito privo di identità culturale degno del nome? La sfida fra Renzi e Bersani sarà utile se farà esplodere queste contraddizioni che tanto devono all’immaginazione del signor Veltroni Walter.


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