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Attentati e divieti. Che succede in Bahrein?

Attentati in serie in Bahrein. Era chiaro che il divieto di manifestare imposto la settimana scorsa non avrebbe fermato lo stillicidio. Ieri cinque bombe esplose nei sobborghi della capitale Manama hanno fatto due vittime e un ferito grave.
 
Il Paese a guida politica sunnita ma popolato a grande maggioranza da sciiti, il 70% dei 525 mila abitanti dello Stato appartiene infatti alla seconda corrente spirituale dell’Islam, si avvia verso l’instabilità. Con un governo incapace di bloccare la spirale di violenza. La settimana scorsa un poliziotto era stato ucciso e un altro gravemente ferito dall’esplosione di bottiglie molotov durante una dimostrazione anti-governo. La manifestazione si svolgeva a Ekar, 15 chilometri a sud della mini capitale Manama. Anima delle proteste è la “coalizione dei giovani del 14 febbraio”. Il movimento sciita si richiama alle giornate che lo scorso anno hanno dato il via a disordini a sfondo etnico religioso che nemmeno l’intervento dell’Arabia saudita e i paesi membri del Consiglio della cooperazione del golfo sono riusciti a placare. Al contrario lo scontro tra attivisti religiosi, 50 morti dal febbraio 2011, si va radicalizzando.
 
Ad aprile, sempre a Ekar, altri sette poliziotti sono stati feriti da un’esplosione. Trentanove sciiti sono in attesa di giudizio per un altro attacco nei confronti di agenti delle forze di sicurezza verificatosi ad aprile a Diraz, cittadina a nord-ovest di Manama. Focolai di contestazione dietro cui vi sarebbe la mano sciita iraniana. Questo almeno il punto di vista della monarchia sunnita.
 
Lunedì infatti l’incaricato d’affari di Teheran dopo aver incontrato Sheikh Isa Kassem, dignitario sciita dell’isola, si è visto accusare di interferenza negli affari interni del Bahrein. Differente invece la colpa rinfacciata a Sheikh Ali Salman. Il leader di Wifak, maggiore forza politica sciita di opposizione, dopo un viaggio in Egitto in cui aveva riferito delle violazioni dei diritti umani in Baherin è stato tacciato di “attività confessionali”. Né Salman né Kassem, personalità che puntano a dialogo e riforme, sono “falchi”. La strategia distensiva però non avanza. La polizia usa il pugno di ferro ogni volta che penetra in zone a forte componente sunnita. La giustizia condanna non solo teppisti ma anche pacifici manifestanti. La scorsa settimana, difensori dei diritti umani, politici e medici sono stati citati in giudizio per “offese alla casa reale”.
 
Per gli analisti il rischio di escalation è reale. Nel caso di vittime tra i dimostranti aumenterebbe l’appello alla protezione degli sciiti. Con l’Iran chiamato in causa. Il Bahrein è alleato dell’Arabia saudita mentre la V° flotta protegge l’isola. Sembra però che Manama ascolti più Ryad che Washington. Secondo Marina Ottaway del Carnegie Endowment for International Peace gli Usa “spingono a trattare e a riformare ”. Al contrario i sauditi ritengono che “le poteste vadano schiacciate”. Chiaro chi abbia vinto il tiro alla fune.
 
Il Consiglio per la cooperazione del Golfo rappresenta, tra le altre cose, un cuscinetto diplomatico dove si stempera la rivalità saudo-iraniana per la leadership sul mondo arabo-musulmano. A differenza di Oman e Qatar che non hanno mai sofferto direttamente delle mire sovversive degli ayatollah e sviluppano una diplomazia audace nei confronti di Teheran, Bahrein, Emirati arabi uniti e Kuwait fanno parte dei Paesi che percepiscono l’Iran come una minaccia. Differenze di vedute sulla sicurezza del Golfo, da cui Teheran vorrebbe escludere ogni potenza straniera mentre gli statarelli rivieraschi vedono nella presenza militare Usa una garanzia e contenziosi su isolotti considerati strategici per il controllo degli stretti di Ormuz, alla base delle tensioni tra Iran e parte dei Paesi membri del Consiglio.

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