In un tempo in cui la gente nutre, a ragione, disprezzo nei confronti della politica, non c’è che da plaudire chi riesce a mobilitare e a far partecipare i cittadini alla vita politica. In questo senso le primarie, che sono una prassi consolidata del centro sinistra, hanno rappresentato un segnale positivo nel paesaggio decadente della seconda repubblica.
C’è stata una buona mobilitazione del popolo della sinistra, anche perché forse per la prima volta è passata l’idea che il risultato fosse veramente contendibile. C’è stata una buona visibilità a costo basso, che vale moltissimo, soprattutto in un tempo in cui i partiti certo non disporranno più dei fiumi di denaro su cui hanno potuto contare nell’ultimo ventennio.
Ma se solo si volesse entrare nel merito dei dati, i toni dovrebbero essere meno trionfalistici per il centro sinistra, anzi per la sinistra, visto che di centro classicamente inteso c’è poco o nulla.
È evidente in particolare che la partita è stata tra il “vecchio” e il “nuovo”, tutta interna al blocco sociale di riferimento della sinistra storica italiana, e sul piano della partecipazione le primarie non hanno nemmeno sfiorato il campo dei moderati e del non voto.
Proviamo a vedere perché, numeri alla mano. Le elezioni primarie si svolsero per la prima volta in Italia il 16 ottobre 2005. Votarono 4.311.000 persone e il 75% degli elettori affidò a Romano Prodi il compito di sfidare il centro destra, cosa che fece vincendo di poco.
Da questa esperienza ne nacque uno dei governi più fragili, bizzarri e conflittuali della storia della Repubblica. Il 14 ottobre del 2007, attraverso le primarie, nacque il Partito Democratico. Non furono competitive poiché l’unico contendente era Walter Veltroni.
Il 75% di 3.517.000 elettori gli affidò la segreteria del PD, che restituì alla chetichella, alle prime difficoltà incontrate. Nel 2009, precisamente il 25 ottobre, Pierluigi Bersani sfidò per la guida del Pd il segretario uscente Dario Franceschini. La competizione fu vera e il gruppo dirigente si divise tra chi voleva l’innovazione rivendicando un profilo riformista e chi voleva un partito identitario di sinistra. Votarono 3.102.709 persone. Vinse Bersani e il campo degli “innovatori” che sosteneva Franceschini si fermò a 1.045.123 elettori.
Domenica 25 novembre si sono svolte primarie “vere”. La caratura di almeno 3 dei 5 contendenti ha fatto pensare fino all’ultimo che il risultato fosse contendibile. In particolare la sfida tra Renzi e Bersani e l’incertezza del’esito hanno spinto alla mobilitazione.
Nonostante questo, rispetto alle precedenti primarie di coalizione, non hanno votato 1.200.000 persone (quasi il 30% in meno). Renzi ha raccolto 1.104.958 voti. Più o meno quanti ne raccolse Franceschini nel 2009, con messaggi (e anche linee di comunicazione e slogan!) che erano similari. Verrebbe da dire, più o meno lo stesso fronte anti – nomenklatura.
I dirigenti della sinistra si sono sperticati in lodi sui risultati, ma con 1,2 milioni di voti in meno c´è sicuramente da interrogarsi sul fatto che magari la disillusione e la delusione ha fatto breccia anche nel loro schieramento, pur essendo più avvezzo al voto e alla partecipazione.
Inoltre, per ammissione dello stesso Renzi, questo fronte paradossalmente sfonda nelle “regioni rosse”, a riprova che non c’è stata nessuna espansione nel campo dei moderati o del non voto, ma una semplice dinamica interna “vecchio” – “nuovo” che si gioca come sempre nel recinto della sinistra italiana.
Alla luce di questi dati, nella prospettiva delle Politiche 2013, è evidente che la partita veraè un´altra e si gioca nel campo delle persone che sono distanti dal voto, in quello dei moderati e di quelli che si attendono una stagione di riforme radicali, che possano dare impulso allo sviluppo economico e al lavoro.
Sintesi di un´analisi più ampia che si può leggere qui