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Caro Monti, recida gli intrecci dei Salotti (buoni?)

 
Dimentichiamo l’amarezza per una sconfitta considerata ingiusta, il risentimento di chi una volta raggiunto il vertice del potere ha avuto appena il tempo di assaporarlo, l’umana voglia di rivincita nei confronti dei “congiurati”, i voltagabbana, i traditori.
 
L’alta finanza non è un pranzo di gala, come del resto la politica, e questo Cesare Geronzi lo dice apertamente. Mettiamo tra parentesi le definizioni salaci che appioppa ai suoi nemici e gli iperbolici apprezzamenti verso gli amici. E andiamo al succo delle confessioni che l’ex banchiere ha rilasciato a Massimo Mucchetti (“Confiteor”, Feltrinelli editore, appena arrivato in libreria).
 
Il messaggio di fondo è che il sistema di relazioni che ha guidato il capitalismo italiano è giunto al capolinea. Diventato dominante negli anni ’70, quando il capitalismo creato nel dopoguerra arriva alla sua prima grande crisi strutturale, tenuto in piedi grazie all’abilità di Enrico Cuccia, entra in crisi con la morte del “lord protettore” delle grandi famiglie le quali, a loro volta, sono in fase di disgregazione, lacerate da guerre intestine e drammi generazionali; tutte salvo poche eccezioni, e a cominciare dagli Agnelli. Gli allievi di Cuccia che hanno cercato di tenere in vita il paziente, hanno dimostrato di non essere all’altezza del maestro. La sentenza pronunciata da Geronzi è questa ed è esatta. Che fare?
 
Il sistema si è impantanato e con esso sono finiti nella palude alcuni importanti asset dell’economia italiana: dalle Generali a Telecom Italia. Mentre una guerra senza fine attraversa Rcs, paralizza il gruppo editoriale e getta ombre sul controllo del giornale della borghesia. Non da oggi. Da tempo, da quando la Fiat lo ha passato a Cesare Romiti e questi a un patto di sindacato nel quale la Fiat e Mediobanca esercitano un potere e Giovanni Bazoli una tutela morale.
 
L’unico modo per uscire dall’impasse è sbrogliare la matassa liberando energie e aprendo la strada a nuovi equilibri nei quali le azioni prima si contano poi si pesano. Il risultato non è garantito, ma non ci sono alternative. Il capitalismo degli amici deve lasciare il posto al capitalismo dei concorrenti. Altrimenti tutte le disquisizioni sulla meritocrazia (nelle quali si sono distinti autorevoli penne sul Corriere della Sera) sono solo ipocrisie.
 
Mario Monti, che in quel mondo ha vissuto a lungo, almeno fin da quando è entrato nel consiglio di amministrazione della Fiat, lo sa bene e all’esordio del suo governo ha fatto una mossa che sembrava promettente: ha proibito il cumulo di cariche nei consigli di amministrazione. Un inizio che ha cominciato a scuotere la foresta pietrificata della finanza italiana, al quale però non ha fatto seguito nessuna mossa più incisiva.
 
Perché non è solo questione di uomini, è un problema sistemico e l’unico modo per sciogliere i nodi è tagliarli. E’ ipotizzabile a questo punto un provvedimento legislativo che vieti gli incroci azionari che determinano evidenti conflitti d’interesse e i patti di sindacato che con un nocciolino più o meno duro consentono di controllare grandi imprese? E’ possibile imporre di accorciare le catene azionarie che mettono grandi gruppi multinazionali sotto il controllo di un proprietario che di suo spende solo una manciata di quattrini?
 
Non è la panacea per tutti i mali del capitalismo italiano. Ma colpisce il fatto che quando si discute dei motivi per i quali da decenni ristagnano gli investimenti esteri in Italia (a parte i fondi mordi e fuggi che arrivano per tirar fuori facili guadagni), o perché alcune privatizzazioni eccellenti sono miseramente fallite (Telecom per tutte, ma non è l’unica), ebbene è clamoroso che non venga messa tra le ragioni principali di questa astenia del capitale, proprio la forma che esso assume in Italia, il modello familistico e assistito (dalle banche, dagli amici degli amici, dallo stato).
 
Perché mai andare in borsa se la compravendita di titoli è una forma accessoria del comando deciso altrove e in base a logiche fuori mercato? Si critica tanto lo statalismo nazionalista dei francesi, ma la piazza di Parigi è infinitamente più ricca e articolata di quella milanese e circa il 40% è composta da investitori esteri.
 
Sarebbe una grande riforma, una delle più grandi, che non ha mai fatto nessuno prima, né il centrosinistra prodiano né il centrodestra berlusconiano. Entrambi hanno accettato il sistema, hanno agito al loro interno, scegliendo di volta in volta gli amici e i nemici. E’ eccessivo chiedere a un breve governo tecnico di supplire anche in questo. C’è bisogno di una solida e maggioranza, convinta che non si governa se si è succubi dei gruppi di pressione esterni, quindi bisogna liberarsi dalla tutela del sindacato del lavoro, ma anche da quella del sindacato del capitale.
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