Divisi su tutto, ma uniti dall’atomo civile. A diciannove mesi dall’incidente di Fukushima, Cina e Giappone mettono in discussione l’abbandono dell’energia nucleare dato per certo dopo che lo shock post-tsunami aveva amplificato il dibattito mondiale sulla sicurezza delle centrali.
Qui Tokyo
I primi dubbi sono venuti ai nipponici. Lo scorso mese, infatti, Tokio affermando di voler allungare i tempi dell’uscita dal nucleare aveva gettato acqua sul fuoco delle precedenti dichiarazioni. Un parziale passo indietro quello del Sol levante, obbligato secondo gli esperti. L’alto livello industriale di Tokio rende di fatto impossibile la moratoria totale dell’atomo.
Il rapporto dell’Aie
Lo scorso 24 ottobre l’ex capo dell’Agenzia internazionale dell’energia aveva infatti sottolineato che il Giappone pagherebbe a prezzi salati la riconversione del principale combustibile della propria economia. Nobuo Tanaka metteva anche il calo di sicurezza energetica tra gli handicap che il Paese deve tenere in conto quanto pensa alla fuoriuscita dal nucleare.
Qui Pechino
L’abbandono dell’atomo civile non era mai stato preso in seria considerazione dalla Cina. Dopo Fukushima, Pechino rifletteva se allungare i tempi della costruzione di nuovi reattori. Che ora invece vengono ribaditi più o meno negli stessi termini. Entro il 2015 invece dei 50 gigawatt programmati prima del disastro giapponese, il gigante asiatico ne avrà 40. Una decisione in linea con la strategia energetica dell’Impero di mezzo. Diventare la prima energia del pianeta basata su combustibili non fossili.
Le speranze (deluse?) di Areva e Westinghouse
La mancata rinuncia atomica dei due paesi fa ben sperare ai costruttori di tecnologia di “terza generazione”. Ma Areva e Westinghouse potrebbero restare delusi. I cinesi, che già dominano il mercato mondiale di pannelli solari e turbine ad aria, hanno già iniziato la costruzione dei reattori più avanzati. Ben presto i CAP1400 saranno made in Pechino.