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Cosa non sappiamo sulla strategia estera degli Usa

Già questa estate Sven Biscop, analista geopolitico dell’Egmont Institute di Bruxelles, affermava che lo stato dell’attenzione europea verso le elezioni Usa era sconcertante e che nessuno si sforzava di capire, né si chiedeva seriamente, cosa sarebbe successo per l’Europa se avesse vinto l’uno piuttosto che l’altro candidato. Da quel momento le cose sono, se possibile, peggiorate.
 
Schemi semplicistici
Biscop, che collabora con il think-tank transatlantico Atlantic Council, appartiene alla scuola di nuovi geopolitici che riprende la teoria classica novecentesca integrandola con la novità del multilateralismo come metodo e contenuto. In pratica, il suo è un realismo moderato dalle nuove dimensioni della potenza elaborate da Joseph Nye (soft power e governance delle questioni ambientali-mondiali), che non abbraccia dunque il radicalismo realista che troviamo, per esempio, negli eurasiatisti. Questi ultimi, orfani della breve stagione di popolarità vissuta a ridosso della guerra dell’Iraq, hanno però il merito di smascherare dinamiche che la retorica del dialogo spesso occulta; è quel multilateralismo di facciata e vuoto che valuta i problemi senza indicare i rapporti di forza concreti che portano alla loro risoluzione.
 
Un realista tradizionale come Henry Kissinger lo ha detto chiaramente nel suo manuale di diplomazia: “Una delle lezioni più difficili che l’America deve ancora imparare” è che le nazioni collaborano finché condividono “fini politici comuni”; perciò, “bisogna concentrarsi su questi anziché sui meccanismi impiegati per realizzarli”. Ma questo “feticismo del metodo” in politica estera trova rispondenze anche in Europa, e in particolare in Italia.
 
Visti dall’Italia
Ieri c’è stato un interessante confronto, che è anche un termometro della consapevolezza nazionale della posta in gioco alla Casa Bianca. L’incontro, patrocinato dall’Institute for global studies (Igs) diretto da Nicola Pedde e dall’American university of Rome, ci ha messo di fronte alla debolezza di una politica estera che, affidata alle immagini, finisce per consegnare l’Italia alla retroguardia, come dimostrano due decenni di gestione delle crisi nelle aree prioritarie per i suoi interessi nazionali, dai Balcani al Mediterraneo. Lo stato dell’arte lo ha descritto Lorenzo Forlani, responsabile Medio Oriente della rivista Meridiani: i media della Rete sembrano affascinati dalla figura di un Obama dialogante, versato nel soft power e che per ciò stesso sarebbe la scelta migliore per gli interessi europei e italiani. I caveat per l’Obama-2 preferito dalla Rete (un nuovo mandato per smontare la crisi iraniana, gestire salafiti e wahabiti attraverso Arabia Saudita e Turchia e al tempo stesso stabilizzare il Nordafrica) sono tanti e tali da dubitare della loro realizzabilità: un’opera improba per gli Stati Uniti al culmine della loro potenza vent’anni fa, figuriamoci oggi.
 
Vincenzo Nigro di Repubblica ha fatto considerazioni sconsolate sulla capacità italiana di percepire tutto questo. Solo un misto di idee vecchie, confuse e sbagliate, per lo più sorte come reazione alla crisi del 1989-91 e lì rimaste, fa credere ancora che l’Italia possa trovare la sua forza nell’aderire ad un atlantismo che gli stessi americani ritengono insufficiente.
 
Pivot Usa in Africa
Con chi vada a confrontarsi questa rinnovata presenza comunque è chiaro: l’Europa. Marco Massoni, coordinatore studi sull’Africa dell’Igs, ha descritto lo spostamento del baricentro degli interessi di sicurezza Usa verso il Medio Atlantico, dove Washington conta di trarre circa il 20% del proprio fabbisogno petrolifero entro il 2015, sganciandosi dalla dipendenza saudita. In gioco ci sono in particolare i giacimenti offshore del Golfo di Guinea, un bacino geostrategico che include Africa occidentale e australe. La destabilizzazione alqaidista ha seguito questo spostamento degli interessi americani fino in Mali, che è a soli 2000 km dalle coste siciliane. Oggi, dice Massoni, ci troviamo di fronte a una linea di faglia al 16° parallelo nord tra Africa nera ed Africa bianca (arabo-berbera).
 
La novità della strategia Usa in Africa è nella flessibilità tattica con cui Washington ha cominciato a rispondere, colpo su colpo, alla presenza cinese, per colmare un ritardo che appare grave agli strateghi americani (nel 2011 l’interscambio Usa-Africa era di 95 miliardi di dollari contro i 170 miliardi tra Cina ed Africa). Una presenza così pervasiva che “non a torto”, dice Massoni, viene percepita come eccessivamente militarista dagli africani (non dai media occidentali, che tendono a non accorgersi di droni e commandos). Indirettamente, è una sfida all’Europa alle sue porte meridionali. Lanciata da Bush jr che ha istituito lo Us-Africa command, ripresa integralmente da Obama, scommettiamo che si intensificherà sia con un Obama-2 che con Romney.

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