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IStarter: un nuovo incubatore d’imprese innovative a Torino

Torino 10 Novembre 2012: inaugurazione di IStarter, il nuovo incubatore d’imprese innovative. Partiamo dalla fine. Prima di lasciare Via del Carmine, non essendoci stato granché tempo per qualsiasi contraddittorio, domandiamo a Francesco Galietti, uno dei soci fondatori, come Istarter si ponga rispetto a I3P l’incubatore d’imprese innovative del Politecnico di Torino. La risposta è un po’ evasiva, certamente per via delle tante persone che premevano per un saluto o solo una stretta di mano all’ex consulente del Ministro dell’Economia Giulio Tremonti. IStarter, dice Galietti, è diverso da I3P, che è un ottimo incubatore. Ha una portata più ampia. Ha sedi in tutti gli snodi finanziari del mondo: Londra, New York, Singapore. I3P, per mandato, deve concentrarsi sulle idee del territorio piemontese.

IStarter è un incubatore d’imprese. La sua missione è di trasformare idee imprenditoriali promettenti in imprese di successo. La sua peculiarità è che ad animarlo sono una quarantina di soci giovanissimi supportati da un certo numero di advisor “pesanti”. I giovani soci, molti dei quali sotto i trent’anni, sono freschi di studi universitari e hanno conseguito master in Italia e all’estero. Mettono la loro professionalità al servizio di altri giovani che intendono farsi imprenditori.

Il capitale? “Il capitale non serve”, tuona Carlo Alberto Carnevale Maffé. E chi non ha capito il nuovo paradigma, è fuori. Nel business, per come lo interpreta IStarter, non c’è tempo per spiegare le cose a chi non le vuole capire. Maffè cui spetta il compito di ispirare i lavori del pomeriggio lungo i panel di approfondimento dedicati rispettivamente a “Ecosistemi Innovativi”, “Il nuovo artigianato”, “Innovazione batte la crisi”, è molto abile e persuasivo. Professore di strategia aziendale alla SDA Bocconi di Milano, ha una ricetta molto semplice: m, m, m. Mercato, merito e metodo. Lui si occupa del metodo, l’imprenditore deve avere la visione. Vedere quel mercato potenziale su cui appiccicare quell’idea che merita di estrarre quattrini da quel mercato.

La sala dello scantinato, nel seminterrato della nuova sede di IStarter, scelta romantica come vuole l’estetica della nuove avventure che si vogliono vestire dell’atmosfera un po’ carbonara e che fa il verso al garage degli startuppisti americani, è piena. Anche se, a voler essere bastian contrari, il trucco è sempre quello. Se metti una fila di sedie in meno, si fa in fretta a dare la sensazione che non ci sia più posto. Anche se, sempre a voler fare i guastafeste, con quaranta soci, quindici speaker, un po’ di amici, e i rappresentanti della prima infornata d’idee da cui usciranno quelle che il team di IStarter deciderà di incubare, si partiva già da una base di settanta, ottanta persone.

I panel di approfondimento sono stati gradevoli e interessanti. Pochi giovani tra i relatori. Nessun startuppista con una storia recente a ispirare i neo-giovani-imprenditori. C’è Luca Colombo di Facebook. David Bevilacqua di Cisco Systems, c’è Luigi Cicchese della torinese Reply; ci sono Carlo Pelanda e Michele Costabile professori universitari e advisor d’importanti fondi d’investimento, dai nomi dal forte simbolismo, Quadrivio e Principia.

Insomma, non sappiamo se mancasse qualcuno, ma sicuramente non mancavano i venerati maestri e le giovani promesse. Veniamo alla sostanza. Ha ragione Eric Ezechieli di The Natural Step quando dice che la missione di un incubatore, e più in generale di un ecosistema innovativo, è quella di darsi dei valori condivisi. Occorre identificare un obiettivo di lungo termine rispetto al quale costruire un progetto aggregato coerente. Un albero con tanti rami alle cui estremità vanno attaccate le foglie che sono le tante iniziative imprenditoriali. L’albero, però, non può che radicarsi su di un territorio, quale che siano le condizioni climatiche che i venti, provenienti da qualsiasi altrove, generino.

Specie oggi che la finanza muove perturbazioni assai veementi e di grande scala. E quel territorio, se IStarter ha scelto Torino, non può che essere il Piemonte. Ovvio che bisogna saper capire quelle che sono le sue vocazioni e non poter prescindere da queste. Moriondo, deus ex machina della Regione Piemonte in tema d’innovazione, sostiene che la Regione in molte questioni non ha voce in capitolo perché di competenza dello Stato. Prendete ad esempio il lavoro e il cuneo fiscale su di esso. Quello che la Regione può fare è ascoltare le proposte dei territori, mappare le strutture e le iniziative che intendono promuovere azioni di sviluppo economico e cercare di assecondarle garantendo, ad esempio, che Torino e il Piemonte siano business friendly. Per connotare un luogo business friendly, Moriondo ci mette dentro la vivacità culturale di Torino e il clima mite. Mite?

Ci permettiamo di far notare a Moriondo che un ecosistema business friendly è un contesto dove c’è certezza delle regole. Perché solo un quadro normativo stabile, come condizione al contorno al mondo degli affari, può garantire chi vuole investire del capitale. E sono molti i provvedimenti di competenza regionale che possono influenzare le attività economiche. Viene da pensare alla normativa sull’obbligatorietà dei sistemi di contabilizzazione individuale del calore nell’edilizia residenziale. Dovevano essere obbligatori a Torino dal 2010 in conformità a una delibera regionale del 2007. Poi nel 2010 l’obbligatorietà fu posticipata al 2012; pochi mesi fa è stata ulteriormente prorogata al 2014.

Collegato a questo tema, si è parlato, forse troppo poco, di smartcities. Si tratta di un programma europeo sulla base del quale molte città, tra cui Torino, riceveranno una dotazione finanziaria dall’Unione Europea per la realizzazione di società con servizi sempre più digitali e sempre più moderni ed efficienti e che coinvolgeranno l’amministrazione della cosa pubblica, la mobilità, la gestione dell’energia. Paolo Messa, consulente del Ministro dell’Ambiente Clini, ministero ridotto a solo una dicitura dall’austerità Tremontiana che aveva esautorato di ogni autonomia la Prestigiacomo negli anni del precedente governo, e che oggi sta certamente facendo di più, si è trovato costretto a impiegare molto del tempo in cui gli è stata lasciata la parola a difendere il lavoro del Governo, piuttosto che a esporre più approfonditamente il tema smartcity di cui si è capito poco o nulla.

In particolare quello che non è chiaro è chi pagherà i servizi che, grazie a queste misure di finanziamento europeo, dovrebbero essere disponibili per la collettività. Saranno a carico dei cittadini? Quei cittadini che, se di smartcity ne sanno poco o nulla gli addetti ai lavori, ne sanno ancora meno?

Il rapporto pubblico e privato è lo snodo fondamentale per il rilancio economico del nostro paese. Siamo d’accordo con Carlo Alberto Maffè quando afferma che se lo Stato rendesse contendibili i tanti servizi che oggi sono sotto la sua gestione, tanti privati potrebbero cogliere molteplici opportunità e realizzare servizi più efficienti con costi più competitivi per il cittadino. Lo siamo meno quando però afferma che è necessario un arretramento totale dello Stato e delle tantissime regole che impediscono la libera iniziativa. Ad esempio Maffè ironizza sulla necessità dei notai per l’apertura di una SRL.

Vero. Siamo i primi a lamentare la pesantezza dei costi di notai e commercialisti che a volte sembrano gli unici a guadagnare sui business plan di chi rischia. Ma ha ragione il repubblicanissimo Carlo Pelanda quando fa notare che i costi di transazione che deriverebbero da una radicale riduzione di controlli durante gli atti societari sarebbero altissimi, come peraltro autorevoli studi americani hanno dimostrato.

E siamo ancora meno d’accordo con Maffé se si perde di vista l’importanza di un ente regolatore collettivo che tenga da conto delle parti deboli di una vertenza. Prendete il caso Motorola di cui proprio Luigi Cicchese di Reply faceva parte. Come dimenticare il ruolo chiave avuto dalla Regione Piemonte nel favorire l’acquisizione da parte di Reply di molti ingegneri che Motorola, nel compiersi delle scritture del capitalismo, aveva deciso di punto in bianco di lasciare a casa senza che i bilanci lo lasciassero presagire.

L’apertura di Istarter è certamente una buona notizia. Perché è una nuova forza che può scuotere questo paese. Perché è un’iniziativa animata da forze fresche, vitali e determinate.

Certamente occorre evitare l’autoreferenzialità. Carlo Pelanda, ironicamente, ha detto che è stato solo un bene che Profumo, Ministro dell’Istruzione, e Martone, viceministro del Lavoro, non abbiano preso parte all’evento. Non siamo d’accordo. Occorre interloquire con il governo e bisogna farlo in fretta. Perché le leggi sul lavoro hanno prodotto risultati negativi. Hanno diminuito quella flessibilità che permetteva a molte start-up di inserire in azienda giovani tecnici. Perché è bene che chi è al governo sappia che per una start-up che ha individuato il suo mercato è meglio ridurre i costi che avere finanziamenti.

Sarebbe auspicabile che tra i tanti giovani dal viso così pulito, e tra i tanti advisor, certamente di peso, ma che con i loro impieghi di professori sono al sicuro dai rischi di fortuna, ci sia qualche startupper, qualcuno che fatto esperienza del percorso di avvio di una società tecnologica sulla propria pelle. Perché la parola “esperienza” porta sempre con sé qualcosa di spiacevole. Ma solo chi ha commesso degli errori può aiutare altri a non commetterli.

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