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La bassa competitività è questione (di) capitale

Molti ospiti stranieri sono rimasti sorpresi martedì 30 ottobre, durante il workshop a Villa Madama organizzato degli uomini di Davos (alias World Economic Forum), nel sentire il breve intervento di Ignazio Visco. Il tema era molto vasto: la competitività. E la domanda di quelle addirittura metafisiche: come mai l’Europa nel suo insieme sta scivolando in coda al treno della globalizzazione guidato dagli Stati Uniti, dalla Cina, dall’Australia?
 
Il voluminoso studio del WEF passa in rassegna tutti gli aspetti, quelli istituzionali, sociali, culturali, tecnologici e in particolare l’innovazione che per i Paesi sviluppati resta la grande molla della competitività. Tra le palle al piede c’è il mercato del lavoro troppo rigido, una immobilità massima nei Paesi del sud e molto minore a mano a mano che si va verso il nord scandinavo in vetta ai paesi più competitivi. Dunque, il fattore lavoro è cruciale.
 
Il governatore della Banca d’Italia, ovviamente, non l´ha negato, ma ha puntato il dito sul fattore capitale, altrettanto fondamentale, in particolare in Italia. Come mai gli investimenti sono così bassi, soprattutto in ricerca e sviluppo (1,27 per cento del Pil, un tasso molto basso, pari solo al 62 per cento della media dell’area euro)? Questa volta non si venga a gettare la colpa sullo statalismo. Ne ha tante (burocrazia, leggi, inefficienza diffusa), ma questa no, perché la spesa pubblica in R&D è più o meno in linea con gli altri paesi dell’Ocse, la vera grande differenza è la spesa privata.
 
Neppure gli economisti di Fermare il declino, mercatisti d’antan, avranno nulla da replicare. Dov’erano i capitalisti mentre l’Italia declinava? Siamo sicuri che sono “capitalisti senza capitali”? Come la mettiamo allora con il fatto che la ricchezza dello stivale è tra le più elevate al mondo, sia quella immobiliare sia quella finanziaria? Da qualche parte dovrà essere uscita. E’ solo l’eredità di un fulgido tempo perduto?
 
Molte analisi in questi anni hanno mostrato che i patrimoni hanno abbandonato la Borsa (colpa del bancocentrismo, certo, ma non può essere sempre responsabilità di altri) e la produzione per finire sul solito mattone o all’estero. Anche le spese per macchinari e capitale fisso sono rimaste basse (pur tenendo conto del mutamento strutturale di una industria sempre più light, perché diventata anche servizio). La stessa Banca d’Italia ha più volte messo il dito su questo capitalismo esangue e ha condannato lo spreco di risorse pubbliche per incentivi che non sono serviti a nulla. I capitalisti si sono fatti rentiers, preferiscono tagliare le cedole che misurarsi con una competizione diventata sempre più aspra.
 
Secondo l’economista Daniel Gros il problema non sta tanto nello stock di capitale fisico e umano, perché nell’ultimo decennio è cresciuto, mentre il prodotto lordo è rimasto stagnante e il pil pro capite in termini reali si è addirittura ridotto. Dunque, è questione di efficienza del capitale investito. Ecco la vera differenza con la Germania. Ma il dato macroeconomico deve essere sostenuto da una indagine microeconomica per capire dove sono andati gli investimenti e come sono stati gestiti.
 
Studiosi come Marco Fortis o Fulvio Coltorti direbbero che non si può fare di tutt’erba un fascio. I piccoli e medi industriali hanno speso, hanno esportato, restano efficienti e competitivi, più dei francesi e tanto quanto i tedeschi. L’euro li ha costretti a ristrutturarsi e li ha aiutati con un costo del denaro più favorevole. Il disastro vero riguarda le imprese grandi, in via di estinzione. Anche quelle che sono riuscite a diventare multinazionali, non solo tascabili, adesso soffrono e sono sul punto di decidere se passare la mano a colossi più resistenti (l’ultimo caso riguarda la Indesit).
 
Insomma, chi si deve mettere una mano sulla coscienza (e quell’altra nel portafoglio), è il mondo che ruota attorno a Confindustria. Non si può soltanto chiedere, bisogna pur dare. Che per un imprenditore significa rinunciare a distribuire utili e investire il sovrappiù prodotto. Anzi, investire anche quando esso s’è inaridito, come accade in recessione, proprio per creare un surplus domani. Chissà se al prossimo workshop gli uomini di Davos ci forniranno analisi puntuali su questa astenia del capitale che in Italia sta diventando una piaga.
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