Unica potenza in grado di dare ordine ai conflitti globali perseguendo i propri interessi. Leader economico del pianeta e immensamente superiore agli altri dal punto di vista militare. Attraente quanto basta anche dal punto di vista del “softpower”. Questi gli Stati Uniti visti da Klaus-Dieter Frankenberger. All’americanista e commentatore di politica internazionale, la Frankfurter Allgemeine Zeitung ha affidato l’analisi delle sfide che attendono la prossima presidenza Usa. Dal quadro tracciato dall´analista tedesco si può partire per cercare di capire le preoccupazioni dei cittadini Usa. La maggioranza degli americani non crede infatti che le cose vadano bene per il Paese. Un paradosso per un popolo quasi geneticamente programmato all’ottimismo. Ripresa economica fragile. Recessione da cui gli Usa sono usciti grazie allo stimolo pubblico della domanda. Debito di Stato e deficit di bilancio a livelli europei. Livelli di disoccupazione a lungo sopra la quota dell’otto percento. Cifre che dovranno spingere la prossima amministrazione a sforzi di consolidamento che il Paese non affronta da tempo. Senza contare che i traumi economici e finanziari hanno messo in moto potenti forze centrifughe, politiche e culturali, interne.
Il prossimo leader della Casa Bianca dovrà dunque riunificare una nazione più divisa che mai. Spingere il Congresso alla collaborazione per ridare al Paese capacità di azione politica non sarà un compito facile in un sistema politico fondato sulla limitazione reciproca dei poteri. Architettura istituzionale che senza impedire trasformazioni fondamentali le rende molto complesse. Chiari dunque i motivi per cui lo scontro elettorale sia stato dominato da economia e politica interna. Persino i successi di Obama nella lotta al terrorismo sono passati in secondo piano. Eppure il marchio della globalizzazione consiste proprio nell’aver intrecciato ciò che era distinto. Sicurezza, economia e politiche globali formano ormai un tutt’uno difficile da districare.
La questione cinese
Unica eccezione in questo quadro di “distrazioni” globali di Washington, la Cina. Pechino è stato il convitato di pietra della campagna presidenziale Usa. I candidati non si sono fatti pregare per sfruttare diffidenze e timori di concorrenza sleale nutriti della popolazione Usa nei confronti dell’Impero di mezzo. Con l’Ohio a fare da cartina di tornasole di questi sentimenti.
La svolta di Obama
Ma per il prossimo presidente Usa, Pechino non sarà solo uno scomodo partner commerciale. Agli albori del XXI secolo la Cina diventerà probabilmente il maggior rivale geopolitico di Washington. Il paese che più di altri sfrutta le asimmetrie economiche globali per realizzare i propri interessi nazionali inquieta anche i propri vicini. Da qui la svolta compiuta da Obama lo scorso autunno e che, al di la di ogni retorica elettorale, vede il totale accordo dei Repubblicani. La regione asiatico-pacifico priorità strategica di Washington.
L’articolo emblematico di Hillary Clinton
Quanto le parole d’ordine della diplomazia Usa nei confronti della Cina siano cambiate lo dimostra l’articolo “asiatico” di Hillary Clinton su Foreign affairs. Cooperazione e impegno sostituiti da contenimento e equilibrio. Impossibile non pensare al “roll back” di George F. Kennan nei confronti dell’Urss. Guerra fredda è stata infatti l’espressione usata da Henry Kissinger per descrivere l’evoluzione dei rapporti nella regione. Una prospettiva che l’ex segretario di Stato ritiene un “disastro”.
Le similitudini con l’Europa
Molto però spinge a similitudini con quanto avvenuto in Europa tra fine della seconda guerra mondiale e crollo del Muro di Berlino. Concentrazione di forze militari, entro il 2020 il sessanta per cento della marina bellica Usa sarà nelle acque asiatiche-pacifiche. Regione motore dell’economia mondiale, gli Stati associati nell’Asean già rappresentano il 60% della produzione mondiale. Qui avviene il 56% dei scambi commerciali Usa. Vie commerciali ed energetiche di importanza vitale per le potenze industriali e per quelle avviate a diventarlo. Spese militari in crescita cosi come i conflitti territoriali. Con la Corea del Nord a svolgere il ruolo del matto del quartiere. Stato imprevedibile e disposto a tutto, almeno a parole, anche col nuovo leader Kim Jong-un. Ecco il teatro dove Usa e Cina si disputeranno l’egemonia. E dove è facile prevedere scontri tra “architetture regionali”. Gli Usa infatti, spinti da nazioni fisicamente troppo vicine a Pechino, stanno costruendo alleanze locali improntate a contrastare quella che la regione percepisce come volontà nazionalistica di Pechino.
Lo sguardo del Vecchio Continente
Nonostante le assicurazioni americane, l’Europa guarda inquieta a un tale approccio. Washington continua a vedere nel vecchio continente l’alleato più fidato e fedele. La Nato è ancora una struttura militare degna di tale nome ma dovrà adattarsi ai compiti del XXI secolo. Ma se Bruxelles non proseguirà nella costruzione politica resterà ai margini delle dinamiche demografiche, economiche, militari e politiche, del pianeta. Indipendentemente dagli Usa.