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Le confessioni (o il De Profundis?) di Geronzi

De pro­fundis cla­mavi. Sarà il titolo, “Con­fi­teor”, sarà lo stile di una con­fes­sione che assomiglia ad un eser­cizio spir­i­tuale con la medi­azione di una guida, ma l’intervista di Cesare Geronzi con­dotta da Mas­simo Muc­chetti, suona pro­prio come il salmo 130, into­nato in questo caso per l’inesorabile “declino del sis­tema che coin­cide con il declino di Mediobanca”. E dob­bi­amo cred­erci se lo dice “il banchiere di sis­tema” (l’ultimo insieme a Gio­vanni Bazoli), pro­prio colui che ne ha sca­lato la vetta. Il libro stam­pato da Fel­trinelli e da oggi in libre­ria, riper­corre quarant’anni nell’arena del potere, com­in­ciando dai ruoli oper­a­tivi in Banca d’Italia. “Il ragion­ier Geronzi” lo chia­mava Beni­amino Andreatta rifer­en­dosi al fatto che non fosse lau­re­ato. Ma fu pro­prio lo stratega eco­nom­ico della Dc post-morotea ad apprez­zarlo e farlo conoscere in Par­la­mento: “Men­tre noi sti­amo qui a par­lare, in via Nazionale c’è un uomo che ogni giorno decide il cam­bio della lira e l’inflazione”, disse nel pieno della polem­ica su un’altra aus­ter­ità, quella degli anni ‘70.
L’irresistibile ascesa finisce mer­coledì 6 aprile 2011, con il com­plotto che defen­es­tra Geronzi dalla pres­i­denza delle Assi­cu­razioni Gen­er­ali. C’è “un man­datario, Diego Della Valle” e “due man­danti”: Alberto Nagel ammin­is­tra­tore del­e­gato di Mediobanca e Lorenzo Pel­li­ci­oli, top man­ager alla De Agos­tini e azion­ista del Leone di Tri­este. In un rac­conto pieno di maschere nude, Nagel e Pel­li­ci­oli sono decisa­mente i due cat­tivi. Certo, la lista di nemici e avver­sari (tra i quali Giulio Tremonti) è lunga, com­pen­sata da un lis­tone di sosten­i­tori e alleati (spunta a più riprese Mario Draghi). Ma l’anatema cade sui prin­ci­pali con­giu­rati, gli stessi che stanno affos­sando il sis­tema nel ten­ta­tivo di impadronirsi delle spoglie. L’amarezza del vec­chio banchiere s’abbatte anche sulla “sec­onda repub­blica, com­in­ci­ata nel caos e finita nel caos”, un vero orrore per lui che ha “sem­pre cer­cato l’ordine”.
Le colonne dell’intero edi­fi­cio com­in­ciano a cadere in realtà già dal 1993. Mediobanca perde il monop­o­lio delle pri­va­tiz­zazioni, soprat­tutto gra­zie a Romano Prodi in guerra con Enrico Cuc­cia fin dagli anni ’80. E con l’intervento di Draghi, il cui comi­tato tec­nico apre le porte alle banche d’affari anglo-americane. Ma il dramma diventa trage­dia dopo la morte del vec­chio finanziere nel 2000. Mas­simo D’Alema vedeva Draghi al suo posto e lo aveva sug­ger­ito allo stesso Cuc­cia che invece vol­eva Vin­cenzo Maranghi. Un anno dopo rispunta Draghi per la pres­i­denza e c’è in ballo anche Francesco Cos­siga. Nel 2003, Geronzi, insieme ad Alessan­dro Pro­fumo, fa cadere Maranghi. Gra­zie alla fusione tra Uni­credit e Cap­i­talia nel 2007 tocca pro­prio al banchiere dei Castelli romani entrare nel salotto buono dalla porta principale.
A questo punto, ritiene di essere diven­tato il nuovo soggetto rior­di­na­tore di un cap­i­tal­ismo sem­pre più banco-centrico. E trova un accordo di fondo con Bazoli il finanziere cat­tolico che guida il treno Intesa-Cariplo-Sanpaolo, da sem­pre alter­na­tivo a Mediobanca. Il per­corso giunge al cul­mine nel 2010 quando Geronzi passa a pre­siedere Gen­er­ali “la mucca dalle cento mam­melle” alla quale si abbev­era la banca d’affari e buona parte della finanza ital­iana. Dura esat­ta­mente un anno.
L’onda d’urto provo­cata dalla sua caduta si sente ancora e le scosse di ass­es­ta­mento rischi­ano di diss­es­tare quel che c’è attorno, a com­in­ciare da Tele­com Italia per finire al Cor­riere della Sera. La madre di tutte le pri­va­tiz­zazioni è stata un dis­as­tro, riconosce ora Geronzi. Quanto al gior­nale della borgh­e­sia, lui ha oper­ato per “super­are l’egemonia della Fiat su via Solferino”. Si attribuisce la nom­ina di Fer­ruc­cio de Bor­toli (insieme a Bazoli e di aver “affondato” Carlo Rossella “stren­u­a­mente spon­soriz­zata da Della Valle e Mon­teze­molo” i quali l’avevano pre­sen­tata a Berlus­coni con­vinti della sua benev­olenza. Il banchiere parla male di Paolo Mieli: gli attribuisce la colpa non solo e non tanto di aver appog­giato aper­ta­mente Prodi nel 2006, ma di aver voluto “scav­are la fossa al gov­erno due mesi dopo le elezioni”. Quanto a Berlus­coni, verso il quale nutre rispetto e grande con­sid­er­azione come impren­di­tore, anche se dice di averlo votato solo nel 1994, Geronzi rac­conta come avvenne il sostegno finanziario di Fin­in­vest con par­ti­co­lari poco conosciuti. “La vera sto­ria di Sil­vio e Cesare”, nell’autunno 1993, passa attra­verso Ennio Doris: la Banca di Roma gli presta 240 mil­iardi per far­gli acquistare il 24 per cento di Fin­in­vest Italia. Così facendo ven­gono sal­vati i conti, aprendo la strada all’ingresso in Borsa di Medi­aset. Cuc­cia, critico sul val­ore della tv pri­vata e con­vinto che i diritti tele­vi­sivi nascon­dessero il falso in bilan­cio, aveva pro­posto un sostegno a patto che Berlus­coni cedesse alla Spafid, la fidu­cia­ria della banca d’affari, il 60 per cento del cap­i­tale rimasto dopo la quo­tazione. “Forse aveva trovato un modo per farsi dire di no”, com­menta il banchiere.
Stefano Cingolani
(sintesi di un articolo più ampio che si può leggere su www.cingolo.it)

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