Non è un mistero che in Francia gli investitori del Golfo abbiano fatto man bassa. Oltre allo sport (Paris Saint-Germain) e dal settore alberghiero (Royal Monceau, Carlton), il Quatar, ad esempio, ha investito in tutti i campi dell’economia transalpina da Lagardère a Suez, passando da LVMH, Vivendi, Vinci e Total.
Oggi anche il governo italiano sembra essersi accorto di questo potenziale: il Golfo può essere un buon alleato per aiutare le nostre imprese a finanziarsi e a competere sui mercati globali.
Questa logica ha portato alla recente firma a Doha – nel corso della visita del Presidente del Consiglio Monti in Qatar – di un accordo tra il Fondo Strategico Italiano (FSI) e la Qatar Holding LLC (QH) per la costituzione di una joint venture denominata “IQ Made in Italy Venture”. La nuova joint-venture beneficerà di una dotazione iniziale di 300 milioni per investire in società italiane con un significativo potenziale di crescita e di espansione internazionale.
Tale operazione ricorda non poco quella conclusa ancora nel lontano 2009, sotto il governo Sarkozy, dal Fond Stratégique d’Investissment con il fondo sovrano di Abu-Dhabi Mubadala, brand più conosciuto agli sportivi per la sponsorizzazione in quel periodo alla Ferrari in F1.
Nonostante le virtu diplomatiche, l’accordo francese a oggi non ha portato a nessun investimento congiunto. A tre anni di distanza il Fond Stratégique d’Investissment non è stato ancora in grado di realizzare alcun investimento con fondi sovrani stranieri del Golfo, siano essi d’Arabia Saudita, Kuwait o Qatar.
In base all’esperienza francese, ci si può porre alcuni interrogativi.In primis, sarebbe utile capire in quali settori il nuovo fondo andrà a investire. L’accordo francese prevede investimenti congiunti in settori ad alta tecnologia e forte potenziale che, però, richiedono ingenti finanziamenti per crescere, come semi-conduttori, aeronautica, dispositivi medici, biotecnologie e energie rinnovabili. La nuova joint venture italiana sembra invece destinata a investire in settori come moda, lusso, cibo, arredamento, design, turismo e tempo libero, segmenti certo tipici del “made in italy” ma con più basse prospettive in termini di innovazione e creazione di know-how per il sistema paese.
Come dimostra il recente caso Valentino, non c’era certo bisogno di creare una joint-venture paritetica per far entrare gli Emiri nelle aziende del “made in Italy” con brand che si vendono da soli. L’apporto di capitale sarebbe più utile in settori sui quali occorre puntare finanziariamente per creare un circolo virtuoso di innovazione e crescita.
Ma la domanda cruciale è un’altra: saprà tale Joint-venture, a oggi abile mossa diplomatica e mediatica, trasformarsi in uno strumento realmente operativo capace di creare ricchezza?, o rischia di fare la fine dell’accordo francese?
Ai posteri l’ardua sentenza. Intanto va dato grande merito a Monti che tenta con grandi sforzi di convincere investitori stranieri a venire in Italia, grazie a un lavoro sulla credibilità del nostro Paese.
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