Con l’entusiasmo per la rielezione di Barack Obama alla Casa Bianca che sta rientrando, i consiglieri più vicini al Presidente sono tornati a concentrarsi sui dossier che saranno al centro dell’agenda economica internazionale di Obama durante il suo secondo mandato. In cima alla lista ci sono Europa e Cina. Gli obiettivi di fondo sono, in qualche maniera, simili a quelli già perseguiti durante il primo mandato, ma questa volta gli sviluppi (o i mancati sviluppi) nell’agenda domestica potrebbero cambiare il senso di urgenza e risolutezza che spingera’ la Casa Bianca a muoversi.
Il Presidente sta già concentrando il capitale politico appena acquisito dalle urne per risolvere il problema del “fiscal cliff”, o precipizio fiscale, cioè il combinato disposto di aumenti di tasse e tagli alla spesa che, salvo diverso accordo con il Congresso, entrerebbe in vigore automaticamente a partire dal gennaio 2013. L’effetto di questo mix sarebbe quello di abbattere il deficit pubblico di circa 4 punti percentuali ma, così facendo, eroderebbe anche la crescita economica che finalmente sta prendendo vigore negli Stati Uniti.
Se questo è il problema più urgente per l’Amministrazione Obama, non è, necessariamente, il più importante. Per quest’anno il governo americano conta di avere un deficit pari al 9 per cento del Prodotto interno lordo (Pil), e il Fondo monetario internazionale stima che lo stesso deficit si attestera’ intorno al 7 per cento l’anno prossimo. Nel frattempo il rapporto debito/Pil sarà aumentato dal 67 per cento del 2006 a un atteso 112 per cento nel 2013. In termini assoluti, questo è il quarto anno consecutivo che gli Stati Uniti hanno un deficit superiore al trilione di dollari, con uno stock di debito pubblico che ha oltrepassato la soglia dei 16 trilioni di dollari.
Durante il suo primo mandato, Obama ha dato priorità alla stabilizzazione delle prospettive economiche nel breve termine, con l’obiettivo di assicurare un rapida inversione di rotta contro le aspettative di una nuova, possibile Grande Depressione del XXI secolo, nel tentativo (sinora pienamente riuscito) di evitare una caduta del Pil continuata e generalizzata. Ma la sua Amministrazione ha dedicato poca o nessuna attenzione alla preparazione di un sentiero di consolidamento fiscale per il medio termine, anche perché ciò sarebbe entrato potenzialmente in conflitto con il primo obiettivo, cioè quello di incoraggiare una ripresa della domanda nell’immediato.
Per il futuro, però, è assai probabile che una strategia di medio termine diventi la priorità dell’Amministrazione Obama nel suo secondo mandato, e questo condizionerà la posizione tattica degli Stati Uniti su una serie di dossier internazionali, dalla crisi dell’Eurozona alle relazioni con la Cina. L’obiettivo infatti è di stabilizzare innanzitutto il mercato europeo, che rappresenta la prima destinazione delle esportazioni americane, e, al contempo, tentare di aumentare la penetrazione degli Stati Uniti in Cina. Tutto ciò è necessario perché una domanda estera stabile – o idealmente in crescita – per i prodotti americani proteggerà, per quanto possibile, l’economia statunitense dal calo di domanda domestica che seguirà all’inevitabile consolidamento fiscale.
Nel suo primo mandato, la posizione di Obama rispetto alla crisi dell’euro è stata analoga all’atteggiamento della sua Amministrazione rispetto alla Cina. Il Presidente ha riconosciuto, soprattutto in privato, alcune differenze di veduta con gli europei, in particolare con la Germania, ma ha attentamente evitato di sottolineare queste stesse differenze in pubblico. Piuttosto ha lavorato incessantemente dietro le quinte per spingere i suoi omologhi nel Vecchio continente verso soluzioni che Washington potesse accogliere positivamente. Per esempio Obama ha trasformato il G8 di Camp David, lo scorso maggio, nel culmine di una strategia tesa ad esercitare pressione sulla Cancelliera tedesca, Angela Merkel, affinché adottasse un approccio più equilibrato, centrato sul consolidamento fiscale ma anche sul miglioramento delle prospettive di crescita.
Muovendosi in base a criteri simili, l’Amministrazione ha sempre guardato con estrema preoccupazione alle dichiarazioni che sollecitavano un’uscita della Grecia dall’Eurozona, ritenendo che una breccia non pianificata nell’Eurozona avrebbe potuto causare una catastrofe anche in Paesi più grandi, ma comunque vulnerabili, come l’Italia e la Spagna. E’ emblematico, a questo proposito, che una delle prime frasi del comunicato finale del Summit del G8 recitasse così: “Siamo d’accordo sull’importanza di un’Eurozona forte e coesa ai fini della stabilità globale e della ripresa, e ribadiamo il nostro interesse nel fatto che la Grecia rimanga nell’Eurozona”.
Dal punto di vista degli Stati Uniti, l’uscita della Grecia dalla moneta unica avrebbe tra l’altro importanti implicazioni geopolitiche. Un abbandono disordinato dell’Eurozona sarebbe soltanto l’anticamera di un’uscita di Atene dalla Nato, organizzazione nell’ambito della quale la Grecia non ha mai nascosto il fatto di non sentirsi adeguatamente protetta dalla vicina Turchia. Questo sarebbe ancora più probabile se la Russia dovesse presentarsi nel ruolo di Cavaliere bianco in soccorso della Grecia nella sua, senza dubbi difficile, transizione. La mera possibilità che in questa situazione Mosca possa rafforzare la sua presenza nel cuore del Mediterraneo costituisce uno scenario che né gli Stati Uniti né l’Europa occidentale sarebbero entusiasti di prendere in considerazione.
Di conseguenza l’approccio “soft” che ha caratterizzato il primo mandato di Obama nei confronti della crisi dell’Eurozona potrebbe subire un’evoluzione e diventare più deciso via via che gli interessi domestici americani coinvolti aumenteranno. In questo scenario, l’Amministrazione dovrà aumentare la pressione sulla Germania per favorire una risoluzione stabile della crisi greca. Allo stesso tempo dovrà spingere Berlino ad adottare un approccio più bilanciato e costruttivo tra austerity e crescita.
Per quanto riguarda la Cina, l’Amministrazione ha potenziato gli sforzi per migliorare la comunicazione verso le sue controparti a Pechino, pur restando consapevole dell’esistenza di aree di disaccordo. Il documento “National security strategy” pubblicato dalla Casa Bianca nel 2010 sintetizzava con efficacia il senso di questa posizione: “Non saremo d’accordo su ogni tema, e saremo chiari sulle nostre preoccupazioni per i diritti umani e sugli argomenti sui quali siamo distanti. Ma i disaccordi non dovranno impedire la cooperazione sui temi di interesse comune, perché una relazione pragmatica ed efficace tra gli Stati Uniti e la Cina è essenziale per trattare le principali sfide del 21esimo secolo”.
Soltanto nel 2011, gli scambi commerciali tra Stati Uniti e Cina sono ammontati in totale a 503 miliardi di dollari, con la Cina che è diventata il secondo principale partner commerciale degli Stati Uniti (dopo il Canada) e il terzo maggiore mercato di destinazione dell’export a stelle e strisce. Tenendo questo a mente, il 19 gennaio 2011 il Presidente Obama, in occasione della visita di stato del Presidente Hu Jintao, ha detto: “In una fase storica nella quale alcuni dubitano dei benefici della cooperazione tra Stati Uniti e Cina, questa visita offre anche l’opportunità di dimostrare una semplice verità. Ciascuno di noi due ha un interesse enorme nel successo dell’altro. In un mondo interconnesso, in un’economia globale, le nazioni – incluse le nostre – saranno più ricche e sicure se lavoreremo assieme”: Questo è esattamente quello che farà l’Amministrazione appena riconfermata. Soltanto che, questa volta, una relazione fruttuosa e meno sbilanciata con la Cina sarà particolarmente necessaria.
Domenico Lombardi è Presidente dell’Oxford Institute for Economic Policy e Senior Fellow alla Brookings Institution